mercoledì 22 agosto 2007

L'aula è pronta!

Missione compiuta
Le gros professeur

Al primo giorno di lavoro, al centro, abbiamo cominciato incontrando e conoscendo il gruppetto di ragazzi del quartiere (otto ragazzi e una ragazza, per la precisione) che poi ci hanno seguito durante tutto il lavoro di installazione, e che formano la platea da cui saranno scelti i formatori e i gestori del centro.
Le presentazioni formali non sono esattamente il mio forte; in Congo, poi, i momenti formali riescono a raggiungere livelli di ampollosità da accademia ottocentesca. E così, quando è stato il mio turno e ho dovuto presentare ai ragazzi il nostro ruolo nel progetto e spiegare la nostra presenza, ho cercato di essere il più schietto e pragmatico possibile, anche a rischio di apparire un po' scorbutico.
Ho cercato di raccontargli qualcosa innanzitutto della parte italiana del progetto, di come è stata tirata avanti con le energie e il tempo libero di studenti e lavoratori volontari, di quante associazioni e persone si sono impegnate al di là di noi tre che siamo venuti quaggiù, della fatica e del sacrificio che ci sono voluti per arrivare fin qua con quei dieci scatolozzi, sparsi in vari bagagli. Forse non è il massimo della cortesia introdursi in questo modo, ma credo che ci portiamo dietro un dovere di testimonianza che è più importante della cortesia.
I computer del centro non sono un regalo magnanimo di qualche mundele che se lo poteva permettere; sono un contributo allo sviluppo, fatto da ragazzi e ragazze che faticano, studiano e lavorano come loro, seppure in condizioni e contesti completamente diversi. Questa considerazione può sembrare banale dall'Italia, ma qui non lo è affatto. I ragazzi di Kingasani non sono mai stati in Europa, tranne qualche rara eccezione, e ne hanno un'idea del tutto fumosa, un po' come l'idea del Congo che si può avere dall'Italia senza averlo mai visto davvero. Qui capita spesso che un ragazzo che t'ha appena conosciuto ti chieda se gli regali la macchina fotografica o il telefono: lo fa senza nessuna cattiveria o malizia, semplicemente perché non ha idea di quanto valgono per un europeo quegli oggetti, se deve lavorare anche lui per comprarseli, o se invece se ne compra uno al giorno. Sanno che noi abbiamo delle possibilità che sono qualche ordine di grandezza maggiori delle loro, e quindi sono difficili anche da valutare.
L'essere costantemente trattato come un salvadanaio che cammina, prima che come persona, è un atteggiamento che crea inevitabilmente distanza e separazione, due piani distinti con due livelli di dignità diversi: è qualcosa di veramente dannoso in un ambito di cooperazione, oltre che di faticoso da vivere per chi ci si trova. Ho cercato sin dall'inizio, per quanto m'era possibile, di evitare situazioni del genere, testimoniare che siamo su due lati della stessa barca, far sentire ai ragazzi che il centro è il loro prima che il nostro, che abbiamo pari dignità e quindi dobbiamo sentire pari responsabilità.
Certo sarebbe ipocrita, e ingiusto, pensare di far svanire con la sola nostra presenza i retaggi di decenni di colonialismo; un mundele qui, oltre a un salvadanaio che cammina, è anche un racconto involontario e spesso inconsapevole di un pezzo di storia, di una brutta storia. E con questo dobbiamo farci i conti. Gli sguardi di diffidenza, a volte di sfida, che capita di ricevere camminando per strada sono comprensibili alla luce della storia degli europei in questo paese: dobbiamo prenderceli, e provare a correggerli un pezzetto alla volta, portando una testimonianza di un'Europa diversa, e cercando a casa nostra di rendere anche l'Europa di oggi diversa da quello che è.
Per fare insieme un progetto di cooperazione però è importante che con le persone con cui lavoriamo si superino queste barriere, e si stabiliscano dei rapporti personali, di fiducia e condivisione di responsabilità. Speriamo di esserci riusciti.
A giudicare dall'atteggiamento e dalla serietà con cui tutti i ragazzi hanno affrontato l'impegno in questi giorni credo che siamo se non altro partiti col piede giusto.

Abbiamo cominciato con l'installare e ricontrollare tutto l'hardware, e poi proseguito con l'installazione dei sistemi operativi. Su tutti i PC abbiamo messo sia Windows che Ubuntu, cercando di diffondere il software libero e tutti i suoi significati non solo tecnici, e al tempo stesso rendere comunque il centro immediatamente appetibile ed utilizzabile in un paese in cui nessuno, ancora, ha mai sentito parlare di Linux.
Abbiamo alternato lo smanettamento sui computer a delle lunghe lezioni teoriche alla lavagna, condensando in pochi pomeriggi diversi mesi di corsi universitari. E in ogni fase eravamo sempre accompagnati da un costante sottofondo musicale, piuttosto caratteristico, che mescola i ritmi congolesi della musica trasmessa dal bar del vicinato, i canti della corale che faceva le prove in chiesa, e i pianti dei bambini della parcelle accanto alla nostra. Un impeccabile riassunto sonoro dello spirito del quartiere.
Anche le interruzioni di corrente, capitate in media un giorno ogni due, sono sempre accompagnate da un buffo sottofondo sonoro: un grido “eeehhh” corale di tutti i bambini del circondario, che festeggiano l'evento (sia quando va via, sia quando torna). Ci aiutano inconsapevolmente, nel loro stile, a segnalarci quando dobbiamo attaccare il router alla batteria, e quando invece possiamo staccarlo.
L'altro ieri abbiamo finalmente terminato i lavori di installazione, connettendo il cavo che collega l'aula ad Internet: centoquaranta metri di connessione Ethernet interrata, su due tratte connesse tramite un piccolo switch che fa da ponte, per arrivare dall'altra parte della strada, dove abbiamo l'antenna wireless che ci connette al provider di Kinshasa.
Dopo mezza giornata passata a tirare cavi e controllare crimpaggi, la risposta al ping che si stampava sullo schermo m'è sembrata più bella di una poesia.
Ora l'aula è pronta; non resta che fare pulizia, terminare la formazione, e poi avremo completato la nostra parte, e si dovrà solo aprire il centro e farlo funzionare e vivere... il meno è fatto!

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