venerdì 17 aprile 2009

18-3-09 Colpo di stato

Le danze (1)
Così molti paesi dell'Africa vivono già la seconda tappa della loro breve storia, iniziata dopo la guerra. La prima tappa sono state la decolonizzazione accelerata e la conquista dell'indipendenza, avvenute in un clima di ottimismo, di entusiasmo e di generale euforia. La gente era convinta che la libertà si sarebbe tradotta in un tetto più solido sulla testa, in una scodella di riso più abbondante, nel primo paio di scarpe della sua vita. Che si sarebbe verificato il miracolo della moltiplicazione dei pani, dei pesci e del vino. Viceversa non accadde niente del genere, anzi ci fu un esorbitante afflusso di popolazione nelle città per cui presto mancarono cibo, scuole e lavoro. L'ottimismo lasciò il posto alla delusione e al pessimismo.
Tutta l'amarezza, la rabbia e l'odio si riversarono sulle élite, la cui principale occupazione era quella di arricchirsi velocemente. In un paese privo di grande industria privata, dove le piantagioni appartengono agli stranieri e le banche al capitale estero, l'unico mezzo per fare fortuna è la carriera politica.
La miseria delle classi più basse da una parte e l'avidità e l'ingordigia di quelle alte dall'altra finiscono per creare un'atmosfera tesa e avvelenata che non sfugge all'esercito. Indossati i panni dei difensori dei deboli e degli oppressi, i militari escono dalle caserme e si impadroniscono del potere.

Ryszard Kapuscinkski, a proposito del colpo di stato nigeriano del 1966, in “Ebano”

Lunedì sera

Delphin non era con noi a cena stasera, e così, unico maschio a tavola, è toccato a me l'onore di iniziare a mangiare per primo. Mentre prendevo il riso m'è arrivato un SMS, ma vista la solennità del momento ho lasciato che il telefono vibrasse nella tasca, e l'ho preso solo a fine cena. Era un messaggio dell'Unità di Crisi della Farnesina, che scriveva di “evitare assolutamente Iavoloha”, ovvero la residenza presidenziale di Ravalomanana, poco fuori Antananarivo. Di per sé non era certo un gran notizia: anche se fossi stato a Tana non mi sarebbe neanche passato per la mente d'andare a fare gite turistiche a Iavoloha di questi tempi. Il fatto che da Roma si siano presi la briga di mandare SMS agli italiani però vuol dire che stava succedendo qualcosa di più grave del solito. Pochi minuti dopo mi è arrivata una telefonata da un numero fisso di Roma, che non conoscevo, e lì per lì sono sobbalzato, temendo che fosse l'Unità di Crisi con notizie peggiori. Invece era semplicemente Davide che mi chiamava dal nostro nuovo ufficio, per dirmi che sul Corriere era uscita la notizia che i militari hanno preso il potere. Mi sono fatto leggere la notizia d'agenzia, e l'ho tradotta al volo a Delphin, che era appena rientrato. Non si sa ancora se si tratta di un colpo di stato “neutralista”, o piuttosto di una presa di potere della fazione pro-Andry. Quest'ultima ipotesi mette qualche pensiero in più, visto che non si sa come reagirebbe in tal caso l'ala legalista dell'esercito, e cosa farà Ravalomanana. Con qualche altra telefonata poi abbiamo saputo che Andry oggi ha dichiarato di aver ricevuto 50 milioni di dollari di finanziamenti internazionali, non si sa bene da chi e perché. È probabile che tale dichiarazione, che lascia intendere uno spostamento degli equilibri internazionali sfavorevole a Ravalomanana, sia stata la mossa determinante per far decidere i militari a muoversi dopo tanto temporeggiare. Andiamo a dormire senza altre notizie.

Martedì sera

Stamattina siamo partiti presto per andare, come programmato già da giorni, a visitare i contadini di Befeta, una comunità rurale a una quarantina di km da Fianarantsoa. Per coprire tale distanza, in macchina, ci vogliono più o meno 5 ore, e di nuovo mi è tornato in mente Kapuscinsky, che scriveva che in Africa le distanze si misurano in ore e giorni, piuttosto che in km.
In effetti più che un viaggio nello spazio andare a Befeta è davvero un viaggio nel tempo, non solo per la durata, ma anche perché ci si allontana progressivamente dall'asfalto, dalla rete elettrica, dal mondo in cui funzionano i cellulari, per raggiungere luoghi di un altro secolo, dove si vive di agricoltura senza trattori né impianti di irrigazione, e ci si sposta a piedi o su carretti trainati da coppie di zebù. Abbiamo passato una giornata intensissima, fra rituali di accoglienza codificati da immutabili tradizioni, un bellissimo pranzo comunitario servito su un pavimento coperto di tzihi intessuti a mano, riunioni, canti scritti per l'occasione (fra cui uno sorprendente dei bambini del villaggio che cantavano strofe sulle loro esperienze di microcredito), e balli e feste.

Non appena siamo rientrati nel mondo in cui funzionano i cellulari, stasera, ho chiamato in Italia per chiedere cosa è successo oggi 400 km più a nord di qui, e capire se nel frattempo era scoppiata una guerra oppure no.

Il potere l'hanno preso i militari pro-TGV, dopo aver accerchiato per qualche ora il palazzo presidenziale, e l'hanno conferito ad Andry subito dopo. Questa era l'ipotesi che fino a ieri ritenevamo la più inquietante, e invece sembra che Ravalomanana, anziché resistere fino alla morte nel suo fortino coi suoi soldati come aveva sempre dichiarato, si sia dimesso, o comunque abbia ceduto il potere ai militari, e che l'ala legalista dell'esercito segua per ora passivamente gli eventi senza battere ciglio. Insomma, il lungo scontro istituzionale sembra concluso, con la vittoria di Andry su tutta la linea.
La prima reazione, specie fra gli italiani, è stata di grande sollievo, se non apertamente di giubilo. Non perché parteggiassimo per un oligarca o per l'altro, ma semplicemente perché s'è scongiurato il peggio, è finito lo scontro, e ci siamo liberati di quel fondo d'incertezza costante degli ultimi giorni.
Per i meccanismi paradossali dei media occidentali, proprio ora escono invece le notizie sui principali giornali italiani e cominciano quindi ad allarmarsi amici e parenti. Ci vuole un po' di impegno per tranquillizzarli tutti.

Mercoledì mattina

Questa mattina, prima di un altro viaggio programmato al parco nazionale di Rano Mafana, sono riuscito ad andare in Internet a leggere un po' di notizie. L'editoriale di Sobika, con un gioco di parole geniale e un umorismo cinico e sconsolato tipicamente malgascio, parla di un paese che vorrebbe essere una Republique ma si conferma ancora una Ruepublique, una strada-pubblica, in cui non c'è mai stato un governo o un presidente che abbiano perso le elezioni, e il potere si è sempre rinnovato con moti di piazza più o meno violenti, e con le conseguenti e determinanti oscillazioni dei militari.

È la nota più amara di tutta questa vicenda, che ha portato ad una nuova ferita armata alle aspirazioni democratiche di questo paese che, malgrado abbia avuto il suo '72, i movimenti studenteschi, la decolonizzazione, una storia politica e una società civile sicuramente più vive e mature di tanti altri contesti africani, continua comunque ad essere una democrazia perennemente adolescente. Delphin, che ha una fiducia pressoché nulla in entrambi gli oligarchi e legge ogni evento con un cinico e quasi divertito distacco, mi sorprende quando mi confessa con amarezza: “come malgascio, avrei preferito che Ravalomanana si fosse fatto ammazzare per difendere il suo ruolo costituzionale come aveva promesso, piuttosto che cedere il potere in quel modo”.

È confortante sapere che gli scontri sono finiti, ma al tempo stesso i malgasci devono fare i conti anche con l'umiliazione di vedere le sorti del loro paese decise, ancora una volta, da un gruppo di generali ammutinati.

lunedì 13 aprile 2009

16-3-09 – La radio

Radio Mapita

La crisi politica malgascia è cominciata da una radio. Quella di Andry, si chiamava Viva Radio. È da lì che “TGV” ha prima lanciato la sua corsa a sindaco, e poi recentemente la sua campagna contro Ravalomanana, a colpi di slogan più o meno “sinistrorsi” sulla lotta alla povertà. Slogan simili a quelli che sette anni prima lo stesso Ravalomanana, allora anche lui sindaco della capitale, lanciava contro Didier Ratsiraka, il vecchio presidente oggi in esilio in Francia.
Andry sta seguendo un percorso simile, quasi ormai fosse una specie di cursus honorum codificato: il potere economico (nel suo caso fatto di media e pubblicità), l'elezione a sindaco della capitale, l'appoggio dei francesi, e poi le proteste di piazza contro il presidente in carica, con l'obiettivo di rimpiazzarlo, spaccando l'esercito e mescolando mezzi istituzionali ad altri decisamente meno ortodossi. A dicembre il governo, che si è distinto per liberismo ma non certo per liberalismo né per rispetto dei diritti umani, ha fatto chiudere Viva Radio, dopo che avevano trasmesso un'intervista a Didier Ratsiraka molto critica contro il potere in carica. Ma ormai il processo dei moti di piazza era avviato.

Il potere della radio qui ha qualcosa di sinistro, più che sinistrorso, per come viene utilizzato per aizzare la folla in manifestazioni che sono fatte più di rabbia e sentimenti di massa che di ragione e coscienze.
Niente di particolarmente nuovo: la storia africana, così come la nostra, ha vissuto esempi ben più drammatici di questo perverso meccanismo mediatico. Quello più tragico fu Radio Mille Collines, che nel novantaquattro rwandese fu l'ingranaggio fondamentale della agghiacciante macchina di propaganda che portò un popolo intero a perdere umanità e coscienze individuali, e a diventare carnefice.
Qui, in un contesto completamente diverso, c'è comunque un inquietante elemento di fascismo nell'uso della radio per irregimentare le masse: gli slogan sono contro la povertà e contro l'ostentata ricchezza del presidente, ma al di là di quelli non sono riuscito a capire, leggendo e parlando con le persone, quale sia il programma e l'identità politica effettiva di Andry. Nessuno lo sa, probabilmente perché un'identità politica non c'è. A parole, sia lui che Ravalomanana dovrebbero essere liberali all'americana. Andry si distingue professando giovanilismo, dinamismo e culto della velocità, tanto da identificare un intero partito, con un gioco di parole, nel TGV, il treno veloce francese. (Per un italiano tutto ciò è goffamente retrò, nel centenario della fondazione del futurismo. Queste cose le abbiamo inventate noi tanto tempo fa!) I suoi militanti ostentano sicurezza, minacciano violenza, usano metodi spicci e fanno paura a chi non è allineato, atteggiamenti più vicini allo squadrismo che al liberalismo. Della loro identità politica profonda, alla fin fine, tutto quello che sono riuscito a capire e che vogliono prendere il potere, più o meno con qualunque mezzo a disposizione. È la radio è stata il mezzo iniziale.

Io in Madagascar ci sto per studiare la fattibilità di un progetto che si propone di mettere su una nuova radio. Tutte queste idee mi frullano in testa: la “fattibilità”, in questo contesto, non è tanto una questione tecnica, ma è prima di tutto una questione di fiducia. Il mio compito principale è conoscere e capire le persone con cui lavoriamo, e fare in modo che loro attraverso me conoscano tutta un'associazione, e i suoi princìpi.
Le esperienze fatte in questi giorni sono state importanti. La “nostra” radio sarà in mano ad una rete di associazioni di base malgasce, che si propone di fare formazione e informazione per i contadini, quelli che spesso non sanno ancora nemmeno che non c'è più Ratsiraka, e che sono esclusi dalla partecipazione democratica. Sulla porta della stanza dove ci riuniamo, a casa di Delphin, c'è attaccata la dichiarazione universale dei diritti umani, che fa da guida a tutti e a tutte. I soci più attivi dell'associazione sono in buona parte ragazze, quelle che i diritti negati li vivono spesso sulla propria pelle. Nelle riunioni-fiume si discute su come promuovere partecipazione, coscienza e responsabilità individuale. Ma più ancora dei contenuti è la forma degli incontri, espressione spesso inconsapevole di un mondo autenticamente e fieramente contadino, a darmi fiducia.

Visti i presupposti, se riusciremo davvero a mettere su una nuova radio non è detto che poi il governo non ce la chiuda dopo qualche settimana, chiunque sarà il presidente. Ma proprio per questo vale la pena provarci.

venerdì 3 aprile 2009

15-3-09 – La crescita

Koinonìa

Quante cose servono per vivere felici o per lo meno sereni?
Partendo per il sud del mondo bisogna essere disposti ad essere ogni volta spiazzati nello scoprire un nuovo pezzetto della propria identità di “europeo”. Insomma ci si mette in gioco, e su quella china si può facilmente finire a mettersi in discussione. Come quando si incontrano persone come Enrico o Gabriele che, partendo da percorsi non così distanti dai miei, hanno fatto scelte ben più radicali, e vivono in Madagascar, alla malgascia, in case popolari, col bagno fuori e senza acqua corrente, bevendo la stessa acqua e mangiando lo stesso cibo degli altri, sostentandosi con lavori saltuari e spostandosi coi mezzi pubblici.
Basta guardarli negli occhi per capire che nel loro percorso, personale e unico, hanno trovato qualcosa, forse equilibrio e serenità, la stessa che ho visto anche in diversi malgasci.
Vivere la cooperazione con questo spirito di condivisione totale, superando o vivendo con maggiore tranquillità le barriere fatte di pastiglie, zanzariere, docce calde e jeep lucide può avere degli effetti sorprendenti. Non è tanto la scelta un po' “francescana” di rinuncia definitiva alla vita occidentale che colpisce la mia attenzione: quella non può essere un modello generale, visto che è giusto che gli occidentali continuino a vivere in occidente, e seguano un loro percorso di crescita. Ma sperimentare quella stessa condivisione, per dei periodi più o meno lunghi, prima di tornarsene a casa, è qualcosa che invece possono fare tutti. E scoprire qual è la propria soglia inferiore può essere sorprendente e per certi versi terapeutico. Ci si può accorgere che si campa benissimo anche senza computer né internet in casa, senza blackberry, senza acqua calda, senza andare a mangiar fuori, senza automobile, in abitazioni spartane, con un paio di scarpe e poche magliette, con le pulci che ti pungono, e una collezione di ragni e scarabei che ti tengono compagnia in stanza o al bagno. E con questa dotazione minima ritrovarsi ad andare a dormire la sera senza stress, stendersi sopra un materasso di gomma piuma di quelli che dopo 5 minuti hanno già un incavo che ha la forma del tuo corpo, e metabolizzare una giornata serena, magari passata ridendo, scherzando e chiacchierando, o una serata allegra scandita da brindisi di rhum casereccio.

Provare per un po' a “vivere al minimo” è un esperimento che tutti dovrebbero fare, se non altro per rendersi conto che spendiamo buona parte della nostra vita e delle nostre limitate capacità di preoccuparsi e concentrarsi per dei bisogni che vanno quasi sempre dal “rinunciabile” all'”inutile”, quando non sono addirittura dannosi, e che quelle energie potrebbero essere riequilibrate e dedicate a cose più significative, senza necessariamente cambiare vita o imporsi rinunce anche quando non servono.

Discutendone con gli altri mi trovo a riflettere sul fatto che lo stesso esperimento, provato in Italia, è molto più difficile, perché diventa un ostacolo alle relazioni. In Italia senza dieci euro in tasca per prendersi una birra o un aperitivo è difficile anche incontrarsi gli amici. Per la prima volta mi rendo conto di quanto sia assurdo tutto ciò. Qual è stato il momento, nella nostra storia, in cui in nome del “progresso” abbiamo perso perfino la capacità di incontrare altre persone senza imporre una barriera di disponibilità economica?
Continuiamo a discutere di nuovi modelli di sviluppo, più sostenibili, di “decrescita” (termine che ha un'aura un po' sfigata che non mi è mai piaciuta), di rimpiazzare il PIL con altri criteri, per ridefinire il significato stesso di progresso, e proprio in questo periodo storico ci stiamo accorgendo di quanto tutto ciò sia necessario. Ma lo facciamo quasi sempre all'occidentale, in un'ottica tutta economica e politica. Presi dalle nostre distrazioni e dalle nostre passioni, ci siamo scordati di cercare l'uomo. Le nostre culture contadine, il vero collante della nostra civiltà, le abbiamo perse, rimpiazzate da culture di cartapesta.

Quand'è che nel nostro percorso abbiamo svoltato per la strada sbagliata? Possibile che non ci sia un modo di tenersi l'istruzione, la sanità, la scienza, la laicità e ripensare tutto il resto in un'ottica più umana? Possibile che, mentre penso questo, nel mio paese si rimettano in discussione proprio l'istruzione, la sanità, la scienza e la laicità, mentre tutto il resto rimane sugli stessi binari ed anzi va peggiorando? Ma perché mi ritrovo sempre in controfase?