venerdì 31 agosto 2007

Dieci anni

I bambini di Saint Hilaire

Quando la guerra civile arrivò a Kinshasa, nel 1997, le zone più combattute della città erano quelle vicine alle principali arterie di comunicazione. Una è la strada che viene dal Bas Congo, ed entra in città da Mont Ngafula. Un'altra è la strada che arriva dal Bandundu, costeggia l'aeroporto di Ndjili, e poi all'ingresso della città diventa Boulevard Lumumba, lo stradone spartiacque fra i quartieri di Kingasani e Masina.
I congolesi non parlano spesso di quegli anni. I missionari invece li raccontano con un'ammirevole serenità, malgrado tutto. Padre Stefano ci ha raccontato sorridendo di quando a Mont Ngafula uscì in strada e si mise in mezzo fra l'esercito di Kabila e quello di Mobutu, facendo da interprete fra i Banyamulenge (i Tutsi congolesi) di Kabila che parlavano Swahili e i soldati di Mobutu, per lo più dei Bandala, che parlavano Lingala. Cercava di ottenere una tregua, ma non è andata benissimo, e racconta senza perdere serenità anche di come è scappato a gambe levate, e della paura cieca di quegli attimi.
“Non sono come i militari romantici dei film o dei romanzi, questi non hanno nessuna morale”, dice Padre Santino. Ci racconta della facilità con cui uccidevano i civili, degli stupri, della suora Anuarité morta nel nord del Congo per aver rifiutato di concedersi a un soldato. I bambini-soldato, poi, erano anche più spietati degli adulti, “per loro uccidere è un gioco”.
Racconta sempre con leggerezza, correndo veloce sui singoli argomenti, “ché se ti metti a ripensarci poi ti prende la paura”.
Per la gente del nostro quartiere quelli sono stati anni di angoscia. Durante la seconda guerra i soldati dell'esercito di Kabila, che nel frattempo aveva preso il potere, venivano nelle parcelles a cercare i “rwandesi”, che poi voleva dire identificare chiunque avesse tratti somatici vicini a quelli rwandesi. Gli sfortunati che avevano dei lineamenti sospetti si ritrovavano con un pneumatico imbevuto di benzina infilato intorno alla vita, come una cintura, e finivano bruciati vivi, in strada.
Quelle stesse strade oggi sono piene di bambini. Quando piove è una festa, escono tutti a piedi nudi a giocare nelle pozzanghere o sotto gli scrosci d'acqua, rischiando ogni volta di rimanere fulminati su qualche cavo elettrico mal sotterrato. Scene che raccontano un quartiere che è ancora molto lontano da una qualità della vita dignitosa, almeno secondo le nostre concezioni, ma che è ben lontano anche dalla paura che doveva vivere alcuni anni fa.
Cerco di immaginare come dev'essere stata l'infanzia di quelli che oggi hanno diciotto anni. Sono gli stessi che spesso in strada ti guardano con aria diffidente, lanciando occhiate di sfida che trasudano una voglia insoddisfatta di rivincita nei confronti di quelli che identificano facilmente come ricchi e potenti.
La parola mundele, quando sono loro a usarla, assume tutta la sua forza dispregiativa. Un razzismo di ritorno che, ironicamente, si sprigiona proprio in una parola che è nata dalla storpiatura di “model”, espressione di sudditanza con cui i congolesi chiamavano i colonizzatori belgi.
Mi chiedo come mi comporterei al posto loro, se fossi nato congolese e cresciuto a Kingasani negli anni novanta, fra i pillages del mobutismo in declino e le guerre che si sono succedute in seguito. Come sarei stato se avessi visto quello che hanno visto loro? Cosa avrei provato nei confronti dei bianchi, dei potenti, di quelli che hanno tutte le possibilità e sfruttano le risorse del Congo per portare ricchezza all'estero, di quelli che quando la situazione si fa difficile possono prendere un aereo e andarsene? C'è da rimanere stupefatti, in fondo, a pensare a quella gran parte di ventenni che ci accolgono con amichevolezza e allegria appena ci conoscono.
Quando uno arriva in questi luoghi all'inizio è sopraffatto dagli odori, dai paesaggi urbani spesso disperanti, dagli atteggiamenti più superficiali dell'umanità varia e densissima che ti si presenta davanti.
Più mi sforzo di andare al di là di questo primo velo, cercando di vedere queste strade in una prospettiva di qualche anno, e più mi sembra finalmente di intravvedere anche un bicchiere mezzo pieno, dietro all'apparenza di questo paese a prima vista senza via d'uscita, avvinghiato sull'immobilismo dei suoi mali endemici che, sfortunatamente per i congolesi, si sposano troppo bene con gli interessi dei paesi ricchi.
Comincio a capire l'allegria di questa gente che, cresciuta in una perenne mancanza di serenità e di pace, ha da poco ritrovato almeno la speranza e stabilità, che ne sono già un primo e fondamentale surrogato.

“Non vi scoraggiate”. Mi tornano alla mente queste parole, belle e del tutto inattese, che due anni fa mi sentii dire da una ragazza-poliziotto, dopo che il suo capo ci aveva appena fatto passare un brutto quarto d'ora. Sono le stesse parole che Marco, senza saperlo, ha ripetuto ai ragazzi che gestiranno il nostro centro a Kingasani. Un incoraggiamento che abbiamo sostenuto anche noi, e che va al di là del risolvere i problemi con un disco fisso o con un'installazione, visto che l'entusiasmo, il senso di appartenere a una comunità e la voglia di sacrificarsi per costruire qualcosa saranno necessari in ogni aspetto del loro impegno.
I segni positivi ci sono tutti, ma c'è anche la consapevolezza che i segni qui sono sempre precari e temporanei, e che la speranza può presto diventare disillusione, in un paese stremato che si attende molto da questo nuovo regime. Distruggere è sempre più facile che costruire, e basta poco per mandare in fumo i progetti e i sacrifici di molti, e tornare indietro, nel baratro dell'ognun per sé.
A volte, partendo da queste considerazioni spicciole, mi prendeva un po' di sfiducia sulla reale portata di un progetto di cooperazione come il nostro, in un posto in cui basta una decisione storta presa da un potente in occidente per mandare all'aria quello che s'è costruito con fatica in mille progetti. Ne parlavo con Marco, una mattina, tornando da Gombe in uno dei nostri viaggi, e i suoi racconti m'hanno fatto riflettere.
Ritorno da Kinshasa con un po' di fiducia in più. In un paese dove la la voglia di ricostruire si regge su un filo precario, il nostro minuscolo progetto di cooperazione, realizzato dove non c'era nulla, ora mi sembra qualcosa di significativo, non solo per il progetto in sé, ma anche semplicemente per aver portato un'esperienza di cooperazione in più in un contesto in cui non ce n'erano molte, e aver dimostrato che costruire qualcosa insieme è possibile.

domenica 26 agosto 2007

Fuochi d'artificio (forse)

Stamattina Debora e Ange, la ragazza che ci prepara le colazioni, parlavano dei rumori che si sentivano ieri dopo la mezzanotte, in lontananza. Secondo loro erano armi da fuoco. Dicono che capiti ogni tanto che la polizia becchi qualche ladruncolo di notte, e si metta a sparare in aria. Nel nostro quartiere è successo anche qualche settimana prima del nostro arrivo.
Stavolta però dicono che i rumori somigliassero più a dei colpi di cannone, simili a quelli del 22 e 23 marzo, e questo non le ha fatte dormire troppo tranquille. Abbiamo controllato, ma in città non è successo proprio nulla. Forse era qualche esercitazione nella zona dell'aeroporto.
Io dormivo, e non ho sentito nulla; la spiegazione più probabile, secondo me, è che fossero dei fuochi d'artificio di qualche concerto alla FIKIN, la storica fiera internazionale che alla sera diventa il centro della scatenata movida kinoise (almeno stando ai racconti di chi ci è stato).
Stamattina, mentre facevamo questi discorsi, s'è alzato il vento e il cielo s'è annerato. Abbiamo dovuto accendere la luce, sembrava che fosse di nuovo calata la notte. E poi è arrivato un nuovo scroscio d'acqua, il terzo da quando siamo qua. Ange dice che è già arrivata la stagione delle piogge (con più di un mese d'anticipo!), mentre Padre Santino dice che non è possibile, si tratta solo di un paio di piogge in più rispetto alla pioggia di mezzo che di solito bagna la stagione secca, causate da un clima un po' più pazzerello del solito.
Non ci sono più le stagioni secche di una volta.

mercoledì 22 agosto 2007

L'aula è pronta!

Missione compiuta
Le gros professeur

Al primo giorno di lavoro, al centro, abbiamo cominciato incontrando e conoscendo il gruppetto di ragazzi del quartiere (otto ragazzi e una ragazza, per la precisione) che poi ci hanno seguito durante tutto il lavoro di installazione, e che formano la platea da cui saranno scelti i formatori e i gestori del centro.
Le presentazioni formali non sono esattamente il mio forte; in Congo, poi, i momenti formali riescono a raggiungere livelli di ampollosità da accademia ottocentesca. E così, quando è stato il mio turno e ho dovuto presentare ai ragazzi il nostro ruolo nel progetto e spiegare la nostra presenza, ho cercato di essere il più schietto e pragmatico possibile, anche a rischio di apparire un po' scorbutico.
Ho cercato di raccontargli qualcosa innanzitutto della parte italiana del progetto, di come è stata tirata avanti con le energie e il tempo libero di studenti e lavoratori volontari, di quante associazioni e persone si sono impegnate al di là di noi tre che siamo venuti quaggiù, della fatica e del sacrificio che ci sono voluti per arrivare fin qua con quei dieci scatolozzi, sparsi in vari bagagli. Forse non è il massimo della cortesia introdursi in questo modo, ma credo che ci portiamo dietro un dovere di testimonianza che è più importante della cortesia.
I computer del centro non sono un regalo magnanimo di qualche mundele che se lo poteva permettere; sono un contributo allo sviluppo, fatto da ragazzi e ragazze che faticano, studiano e lavorano come loro, seppure in condizioni e contesti completamente diversi. Questa considerazione può sembrare banale dall'Italia, ma qui non lo è affatto. I ragazzi di Kingasani non sono mai stati in Europa, tranne qualche rara eccezione, e ne hanno un'idea del tutto fumosa, un po' come l'idea del Congo che si può avere dall'Italia senza averlo mai visto davvero. Qui capita spesso che un ragazzo che t'ha appena conosciuto ti chieda se gli regali la macchina fotografica o il telefono: lo fa senza nessuna cattiveria o malizia, semplicemente perché non ha idea di quanto valgono per un europeo quegli oggetti, se deve lavorare anche lui per comprarseli, o se invece se ne compra uno al giorno. Sanno che noi abbiamo delle possibilità che sono qualche ordine di grandezza maggiori delle loro, e quindi sono difficili anche da valutare.
L'essere costantemente trattato come un salvadanaio che cammina, prima che come persona, è un atteggiamento che crea inevitabilmente distanza e separazione, due piani distinti con due livelli di dignità diversi: è qualcosa di veramente dannoso in un ambito di cooperazione, oltre che di faticoso da vivere per chi ci si trova. Ho cercato sin dall'inizio, per quanto m'era possibile, di evitare situazioni del genere, testimoniare che siamo su due lati della stessa barca, far sentire ai ragazzi che il centro è il loro prima che il nostro, che abbiamo pari dignità e quindi dobbiamo sentire pari responsabilità.
Certo sarebbe ipocrita, e ingiusto, pensare di far svanire con la sola nostra presenza i retaggi di decenni di colonialismo; un mundele qui, oltre a un salvadanaio che cammina, è anche un racconto involontario e spesso inconsapevole di un pezzo di storia, di una brutta storia. E con questo dobbiamo farci i conti. Gli sguardi di diffidenza, a volte di sfida, che capita di ricevere camminando per strada sono comprensibili alla luce della storia degli europei in questo paese: dobbiamo prenderceli, e provare a correggerli un pezzetto alla volta, portando una testimonianza di un'Europa diversa, e cercando a casa nostra di rendere anche l'Europa di oggi diversa da quello che è.
Per fare insieme un progetto di cooperazione però è importante che con le persone con cui lavoriamo si superino queste barriere, e si stabiliscano dei rapporti personali, di fiducia e condivisione di responsabilità. Speriamo di esserci riusciti.
A giudicare dall'atteggiamento e dalla serietà con cui tutti i ragazzi hanno affrontato l'impegno in questi giorni credo che siamo se non altro partiti col piede giusto.

Abbiamo cominciato con l'installare e ricontrollare tutto l'hardware, e poi proseguito con l'installazione dei sistemi operativi. Su tutti i PC abbiamo messo sia Windows che Ubuntu, cercando di diffondere il software libero e tutti i suoi significati non solo tecnici, e al tempo stesso rendere comunque il centro immediatamente appetibile ed utilizzabile in un paese in cui nessuno, ancora, ha mai sentito parlare di Linux.
Abbiamo alternato lo smanettamento sui computer a delle lunghe lezioni teoriche alla lavagna, condensando in pochi pomeriggi diversi mesi di corsi universitari. E in ogni fase eravamo sempre accompagnati da un costante sottofondo musicale, piuttosto caratteristico, che mescola i ritmi congolesi della musica trasmessa dal bar del vicinato, i canti della corale che faceva le prove in chiesa, e i pianti dei bambini della parcelle accanto alla nostra. Un impeccabile riassunto sonoro dello spirito del quartiere.
Anche le interruzioni di corrente, capitate in media un giorno ogni due, sono sempre accompagnate da un buffo sottofondo sonoro: un grido “eeehhh” corale di tutti i bambini del circondario, che festeggiano l'evento (sia quando va via, sia quando torna). Ci aiutano inconsapevolmente, nel loro stile, a segnalarci quando dobbiamo attaccare il router alla batteria, e quando invece possiamo staccarlo.
L'altro ieri abbiamo finalmente terminato i lavori di installazione, connettendo il cavo che collega l'aula ad Internet: centoquaranta metri di connessione Ethernet interrata, su due tratte connesse tramite un piccolo switch che fa da ponte, per arrivare dall'altra parte della strada, dove abbiamo l'antenna wireless che ci connette al provider di Kinshasa.
Dopo mezza giornata passata a tirare cavi e controllare crimpaggi, la risposta al ping che si stampava sullo schermo m'è sembrata più bella di una poesia.
Ora l'aula è pronta; non resta che fare pulizia, terminare la formazione, e poi avremo completato la nostra parte, e si dovrà solo aprire il centro e farlo funzionare e vivere... il meno è fatto!

giovedì 16 agosto 2007

Solidarietà fotografica

Il Presidente
Scattare foto in Repubblica Democratica del Congo è ancora un gesto da fare con circospezione. Continua ad essere in vigore una vecchia legge che impedisce di fare foto in luoghi pubblici, anche se in teoria questa norma non è più compatibile con la nuova costituzione; per i poliziotti quindi una macchina fotografica sguainata rappresenta una violazione della legge, e un ottimo appiglio per intimidire qualche malcapitato e farsi dare un po' di soldi. Se riescono a sequestrare la macchina poi la tariffa aumenta: conoscono bene il valore di una digitale, e per farsela ridare ci vogliono anche trenta o quaranta dollari, ovviamente rimettendoci la scheda di memoria con le foto sequestrate.
La tecnica migliore, se proprio uno vuole fare qualche foto in una zona controllata, è individuare il capo dei poliziotti e pagare prima di cominciare a scattare. Oppure fare foto dall'auto in corsa, quando davanti c'è strada libera. Oppure, ancora meglio, tenere la macchina spenta in tasca e lasciar stare le foto.
Questo è quello che si apprende da “turista” a Kinshasa.
La situazione di chi da queste parti fa il giornalista o il reporter è invece un po' più complicata. Oggi mentre passavamo in macchina sul Boulevard du 30 Juin a Gombe abbiamo incontrato una manifestazione di fotografi e giornalisti, che bloccavano civilmente buona parte del viale nel senso di marcia opposto al nostro. Saranno stati qualche centinaio al massimo, marciavano tutti con la macchina fotografica appesa al collo, e degli striscioni che chiedevano l'impegno del governo perché cessi l'uso delle armi contro i fotografi, e si puniscano gli omicidi.
Io avevo la mia macchina in tasca e avrei tanto voluto scattargli una foto di solidarietà, poi ho dato un'occhiata al numero di poliziotti in giro, e al traffico bloccato che avevamo davanti, e ho pensato che bastava il pensiero.
Padre Santino questa sera ci diceva “eh si, ultimamente ne hanno ammazzati due”. Non lo sapevo, ma in effetti è vero: nel Kivu, la regione orientale del Congo dove ci sono ancora aree non pacificate, i giornalisti sono tuttora vittime di esecuzioni pianificate, che il governo a quanto pare non riesce né a evitare né a punire e reprimere.
http://www.rsf.org/article.php3?id_article=23252

Oggi al ritorno siamo ripassati sul viale, in senso opposto, dopo una mezz'ora da quando avevamo incrociato la manifestazione. Ci aspettavamo di trovare coda, e invece il traffico era scorrevole: un nutrito cordone di poliziotti aveva bloccato la manifestazione e spinto tutti i fotografi sul marciapiede, il corteo era già finito.

mercoledì 15 agosto 2007

Da Kingasani a Gombe

Al mercato
Taxi express
When we were kings
Gombe
Fra la missione dove alloggiamo e la Gombe, il centro di Kinshasa, ci sono venticinque chilometri di strade e umanità varia. Il viaggio richiede più di un'ora di tempo, e un po' di buona volontà.
Si parte dalla missione, in una zona interna del quartiere Kingasani. Le strade qui sono degli stretti vicoli sabbiosi, dove si arriva solo con dei fuoristrada. Non ci sono taxi-bustaxi-express che arrivano fin qua, né tantomeno auto private, a parte il fuoristrada della nostra parrocchia, o qualche sporadica jeep di qualcuno che viene da altri quartieri. La densità di catapecchie stipate di persone è fra le più alte che ho visto a Kinshasa.
La strada asfaltata più vicina è il Boulevard Lumumba, ovvero lo stradone che connette l'aeroporto di Ndjili con la città: distra tre chilometri dalla missione, ed è anche il punto più vicino in cui si può prendere un taxi.
Per uno dei nostri viaggi in ville ci arriviamo a piedi, accompagnati da Blaise, un ragazzo della parrocchia, che ci fa da guida. Attraversiamo il quartiere a passeggio, ed è davvero impossibile passare inosservati. I bambini ci corrono incontro tutto il tempo, fanno una gran festa, ci battono il cinque e poi si guardano la mano per vedere se s'è sbiancata. Ci chiamano “Santino” finché siamo nella zona della parrocchia, o semplicemente mundele quando oltrepassiamo il confine parrocchiale. Samuele viene spesso apostrofato anche come “Jesus”, nell'ilarità generale. Fra i più grandi invece ci sono anche quelli che ci guardano con aria di sfida, in modo non particolarmente amichevole. Cerco di rispondere a tutti con sorrisi pacifici, non c'è molto altro che si possa fare.
Si cammina guardando per terra: la sabbia è piena di immondizia, ed è meglio fare attenzione a dove si mettono i piedi. Di tanto in tanto l'immondizia è smaltita in qualche falò che appesta l'aria.
Poco prima del Boulevard costeggiamo l'ospedale delle Poverelle di Bergamo: è una struttura molto estesa, costruita prima che il quartiere le crescesse tutto intorno. Copre tutte le necessità sanitarie di una zona di ottocentomila abitanti, e il solo reparto maternità fa venticinque parti al giorno. Il tutto gestito con tre medici part-time (ognuno è in ospedale tre giorni a settimana), delle infermiere tuttofare, e parecchia arte di arrangiarsi.
Giunti al Boulevard ci fermiamo all'angolo della strada, mentre Blaise va a cercare un taxi. Lo mandiamo da solo a negoziare, così che l'autista non veda che ci sono anche tre mundele, altrimenti il prezzo salirebbe sicuramente. Ritorna dieci minuti dopo, con un taxi mediamente scassato: una vecchia Mazda con parabrezza rotto e carrozzeria acciaccata. Sul cruscotto i soliti adesivi “Rispetta il conducente perché conduce la tua anima” e “Dio è la mia forza”, più un altro adesivo che invece non avevo ancora visto, che recita “La vita è dura, l'uomo deve battersi”. Il parco auto, anche guardandosi intorno, mi sembra non essere cambiato di una virgola in questi due anni. Gli stessi vecchi furgoncini Volkswagen e Ford a fare da taxi-bus, con gli oblò sui fianchi ritagliati col frullino e i panchetti di legno sistemati ad una densità disumana. Gli stessi vecchi camion appesta-aria, carichi di sacchi di farina mista a persone, e le stesse macchine scassate a fare servizio di taxi-express. L'evoluzione più notevole, che salta subito all'occhio, è un inizio di applicazione del codice della strada: non ci sono più persone fuori dai furgoncini e dai camion, nelle auto non si può andare in più di cinque persone, sui sedili anteriori bisogna indossare le cinture (nel nosro taxi sono rotte, il conducente le ha rimesse su con un nodo, ma comunque ci sono), e sparsi in giro per la città ci sono addirittura una manciata di semafori, tutti funzionanti (anche se non so cosa succede quando va via la corrente).
Prendiamo il boulevard in direzione centro, ed arriviamo alla fine del viale, dove c'è una grande rotonda con al centro il monumento a Lumumba, e dove inizia la parte più centrale della città. Due anni fa quella rotonda era un'immensa discarica/inceneritore a cielo aperto, e mi ricordo che proprio in quel punto Ngindu mi disse “benvenuto a Kinshasa”. Ora non c'è più immondizia, un altro segno degli sforzi governativi per mettere ordine.
Certo, questo è uno sforzo più di facciata che di sostanza: la raccolta dell'immondizia in città non c'è ancora, e i rifiuti che non sono qua finiscono evidentemente da qualche altra parte non troppo lontano. Però almeno il povero Patrice può avere un po' di decoro intorno al suo monumento.
Continuiamo attraversando la zona di Avenue de l'Université, dove si trovava il nostro vecchio centro, e proseguiamo costeggiando lo stadio, un'immensa costruzione che sembra un'astronave calata lì in mezzo per sbaglio. Fu qua (o meglio nel vecchio stadio, che è di fianco) che Mohammed Alì si riprese il titolo da George Foreman, in quello storico match in cui una folla di congolesi (all'epoca si chiamavano zairesi) faceva il tifo per lui gridando in lingala “Alì buma ye”.
Proseguiamo oltre lo stadio verso il centro della Gombe, costeggiando l'Assemblée Nationale (il parlamento), e poi il Centro Nazionale d'Igiene, o meglio quel che ne resta. Era uno degli edifici più belli ed efficienti della città, lascito della colonizzazione belga. Ricordo che Ngindu ci raccontava di quando da ragazzo andò lì a vaccinarsi prima di partire per l'Italia. Negli anni 90 poi fu semidistrutto dalla folla inferocita durante uno dei pillages, ed ora resta un imponente rudere annerito, occupato da una folla di senzatetto.
Arriviamo all'Institut Superieur du Commerce, dove andiamo a trovare Ngindu, e poi ci dirigiamo verso il Boulevard du 30 Juin, il viale centrale della Gombe, dove si trovano tutti gli edifici e le ambasciate più importanti.
Quella della Spagna porta ancora qualche segno delle cannonate del marzo scorso, quando fu colpita inavvertitamente dall'artiglieria pesante dell'esercito governativo che stava cercando di abbattere un cecchino dei miliziani di Bemba, il capo dell'opposizione sconfitto alle elezioni dell'autunno scorso. Marco ci racconta della tensione di quei giorni, quando l'aeroporto era chiuso, e il rumore dei colpi di cannone alla Gombe si sentiva fino a Kingasani.
Si dice che Bemba avesse un esercito di seicento miliziani, di cui trecento sono stati uccisi in quei giorni dall'esercito governativo, mentre gli altri sono dispersi. Da allora a Kinshasa non s'è più sparato, e la situazione politica sembra finalmente stabile.
Ed in effetti, almeno in superficie, sono diversi i segnali che fanno pensare ad una città più distesa rispetto a quella che ricordavo: i caschi blu non vanno più di vedetta con i carri armati, al massimo li si incontra su dei normali pick-up. Davanti alla sede della MONUC non ci sono più le barricate di sacchetti di sabbia, sono rimaste solo quelle di filo spinato. Ci sono molti più poliziotti in giro rispetto a due anni fa, ma finora nessuno di loro, fuori dall'aeroporto, ha mai provato a fermarci per spillarci dei soldi. Uno sul boulevard m'ha schernito chiamandomi ciccione in lingala (almeno stando alla traduzione di Blaise), ma anche lui poi è passato di lungo. In altri tempi ci avrebbe come minimo chiesto i documenti, e avrebbe cominciato a questionare su ogni appiglio.
Al mercato di souvenir e oggetti d'arte in fondo a Boulevard du 30 Juin ci siamo arrivati verso ora di pranzo, e non c'era quasi nessun cliente fra i banchi, a parte noi e un casco blu russo in libera uscita. Eppure quasi nessuno dei venditori cercava di attirare la nostra attenzione, o almeno nessuno mostrava l'insistenza famelica che ricordavo, segno che forse si vede qualche soldo in più in giro.
Sono solo segnali superficiali, in un paese in cui le condizioni di vita delle persone in due anni non si sono praticamente mosse, eppure il fatto che dei piccoli cambiamenti si notino mi sembra già qualcosa di insperato, che vale la pena rimarcare.

lunedì 13 agosto 2007

Ninna nanna

I vicini
Ieri sera dai nostri vicini pareva esserci una festa da ballo: musica a tutto volume, fastidiosamente distorta da un impianto evidentemente utilizzato al di là delle sue possibilità, ma comunque comprensibile ed allegra. Ogni tanto si incantava una canzone, e si sentiva una folla rumorosa che si lamentava all'istante, per qualche secondo, fin quando la musica non riprendeva.
Siamo andati a dormire verso le undici, e la musica non accennava affatto a smettere. Poco male, era ancora presto, la gente dovrà pure divertirsi ogni tanto! Mi sono addormentato con parecchia fatica, e poi mi sono risvegliato verso le due: la musica era sempre lì, senza minimamente accennare né a finire né, tanto meno, a calare di volume.
Mi sono venute in mente tutte le volte che a Roma i miei vicini devono aver pensato improperi simili a quelli che avevo in testa io... Bisogna essere tolleranti!
Alle 5 e mezza mi sono svegliato di nuovo, al suono delle campane della prima messa, come tutte le mattine. Stavolta le campane erano mixate alla musica dei nostri vicini, che era sempre lì a scorrere forte, costante e impassibile come l'acqua del fiume Congo. A quel punto ho iniziato istintivamente a invocare fra me e me che andasse via la corrente... possibile che quando serve non capita mai?
Alle 7 mi sono alzato, doccia e colazione, sempre con sottofondo musicale. Chiediamo informazioni a Debora. Ci sono due possibili spiegazioni: o è una veglia religiosa, che può andare avanti anche per ventiquattro ore, oppure è un funerale. In quest'ultimo caso la musica può andare avanti anche per tre giorni di fila. Se l'elettricità tiene bisognerà organizzarsi con dei tappi alle orecchie.

sabato 11 agosto 2007

Il "nostro" quartiere

Il campo da calcio

Kingasani (1)

Kingasani (2)

Kingasani (3)

Mimì

Uno degli obiettivi della missione a Kingasani, oltre all'installazione del centro, è anche riallacciare i contatti con i nostri partner del vecchio progetto, ritrovare gli amici, riprendere i fili interrotti. Questa mattina siamo andati a trovare Ngindu, all'Institut Superieur du Commerce, l'università economica di Kinshasa. Già che c'eravamo abbiamo fatto due chiacchiere con il vice-rettore, che ci ha subito chiesto se ISF può fare qualcosa per installare un po' di PC “d'occasion” nel loro laboratorio di informatica, che è spaventosamente a corto di macchine e mezzi... prossimamente torneremo anche a fare una visita al campus di Kinshasa, e immagino che di richieste simili ne usciranno anche lì. Di progetti da fare, volendo e potendo, se ne troverebbero a bizzeffe.
Speriamo di trovare il tempo per incontrare anche gli altri collaboratori dell'ONG con cui abbiamo lavorato nel progetto precedente. Una di loro, purtroppo, non potremo rivederla. Mimì, l'insegnante di taglio e cucito dell'ONG, è venuta a mancare ieri. Era lei che ci ha accolto il giorno che arrivai a Kinshasa, cucinando il mio primo pranzo congolese, a casa sua. Era lei che ha cucito la camicia congolese che ho riportato a casa con me, il dono con il quale sono stato salutato dall'ONG quando ho lasciato il Congo. Era una persona che ispirava subito fiducia, col suo sorriso e la sua calma. Un filo che s'è spezzato davvero troppo presto.

giovedì 9 agosto 2007

Mercoledì 8 agosto – Pioggia a Kinshasa

Nerd a Kingasani
Martedì mattina atterriamo a Ndjili con un'ora d'anticipo, oppure con ventitré ore di ritardo, a seconda dei punti di vista. Avvertiamo alla svelta Marco con un sms, quando siamo ancora in aereo, per non rischiare di ritrovarci coi bagagli ritirati a dover passare la dogana prima che lui sia arrivato.
Affrontiamo il controllo passaporti con tutta la cirscospezione del caso (credo d'aver fatto una testa così a Samuele e Daniele, dopo i travagli capitati in passato) ma stavolta fortunatamente va tutto liscio. Superiamo tre controlli di passaporto senza che praticamente neanche ci guardino la lettera di invito, ed anche il controllo della vaccinazione contro la febbre gialla è solo una formalità. Ci avevano detto che il governo sta cercando di mettere “ordine” a Ndjili, e qualche cambiamento in effetti si nota, non solo per i cartelli ripitturati.
Superati i controlli siamo all'area bagagli, Marco è già lì che ci aspetta. Anche qua si nota un po' più di ordine: non c'è più la ressa di due anni fa, e in mezzo ai nastri c'è solo gente in uniforme (non so se rallegrarmene in realtà). Rimaniamo più di un'ora a vedere valigie, buste e scatoloni passare... ma dei nostri otto bagagli non c'è traccia. Quando si ferma il nastro e si chiudono i cancelli sono indeciso se deprimermi o prenderla a ridere, e poi propendo per la seconda opzione. Le suore delle Mauritius che erano ad Addis Abeba con noi sono pure loro senza bagaglio, ed anche questo non so se è un segno tranquillizzante o ancora più allarmante. È forte il sospetto che forse all'Ethiopian ci sia stato un piccolo disguido ieri col volo che abbiamo perso... Chiedendo in giro ed indagando un po' finiamo dentro la famigerata stanza dell'OFIDA, la dogana dell'aeroporto. Lì riconosco subito un mucchietto di valigie familiari, arrivate comodamente il giorno prima (caro ragazzo della biglietteria Ethiopian di Fiumicino, se leggi queste righe sappi che avevi ragione, un'ora di cambio è più che sufficiente, non solo in teoria, per trasferire i bagagli, anche quando il volo di provenienza arriva in ritardo).
Ne recuperiamo sei su otto, senza dover sganciare mance a nessuno. Mancano solo la borsa con la stampante, e la valigia con tutti i miei vestiti. Chiedendo di nuovo in giro finiamo su un signore dell'Ethiopian, che stava cercando “Monsieur Arcangeli”. Mi ha gentilmente messo da parte quei due bagagli perché c'erano alcune tasche che non erano chiuse a lucchetto. Usciamo dall'aeroporto con i sei bagagli, senza che ce li aprano per i controlli doganali (previa poche mance), e li portiamo in macchina. Poi io e Marco andiamo al secondo piano dell'area partenze, all'ufficio Ethiopian, a recuperare i miei due mancanti. Sarà destino che ogni volta che arrivo a Ndjili quelle scale devo farmele, per un motivo o per un altro! Riprendo i miei bagagli in condizioni impeccabili, e Marco lascia una piccola mancia al signore Ethiopian, senza che lui l'abbia chiesta.
Insomma, nel giro di un paio d'ore siamo fuori dall'aeroporto, avendo sborsato un totale di pochi spiccioli, con tutti e otto i nostri bagagli (nonostante tutte le variabili avverse, come le masse di bagagli persi a Fiumicino in questi giorni, la coincidenza persa ad Addis Abeba, e la dogana congolese).
Il primo incontro con poliziotti e funzionari congolesi mi lascia a pelle la sensazione che qualcosa sia cambiato per davvero. Ma è solo una sensazione, è anche possibile che non sia cambiato nulla ed abbia semplicemente avuto sfiga due anni fa (tant'è che un paio di poliziotti provano subito a romperci le scatole per una foto scattata da Daniele quando eravamo già fuori dall'aeroporto). O forse questa volta è stato tutto un po' più semplice perché eravamo più preparati. O forse, spiegazione più razionale, le croci c'hanno aiutato davvero.
Usciamo dall'aeroporto e prendiamo Boulevard Lumumba, in direzione della città, quello che chiunque sia passato di qua non si scorderà più. Lo stesso stradone, la stessa umanità varia che lo popola, la stessa sabbia sporca. Ben prima di arrivare alla rotonda col monumento di Lumumba si gira a sinistra per Kingasani, il quartiere dov'è situata la missione che ci ospita. È il quartiere dove due anni fa eravamo stati a consegnare alcuni scatoloni di medicinali all'ospedale delle Poverelle di Bergamo. Un quartiere di quelli non facili da spiegare a parole: una distesa di catapecchie, inframezzate da strette stradine di sabbia e rifiuti, piene di gente. Persone dovunque, soprattutto bambini, e qua e là anche qualche cane o qualche gallina. L'acqua è pochissima, la gente va a prenderla a piedi con bidoni e carretti “pousse-pousse” percorrendo a piedi qualche chilometro. La fornitura elettrica c'è, ma Marco ci dice che attualmente è staccata, già da qualche giorno.
Quando entriamo nella parte di quartiere coperta dalla parrocchia della missione tutti i bambini iniziano a urlarci “Santino! Santino!” (Santino è il missionario che ha creato dal nulla la parrocchia). Questo coro ci accompagna fino all'ingresso della missione, una vera e propria oasi in muratura, dove abbiamo letti, servizi igienici, cibo, una connessione Internet con ponte radio verso il provider in città, e un gruppo elettrogeno che si può accendere per qualche ora la sera (il tempo di pompare l'acqua dai bidoni nella cisterna).
Nel bel mezzo della notte mi sveglio per il rumore del vento, fortissimo, a cui segue a breve uno scroscio di pioggia che dura qualche ora. Questa è davvero l'ultima cosa che m'aspettavo nel bel mezzo della stagione secca! La pioggia a Kinshasa, e le strade di sabbia bagnata non le avevo mai viste. Se anche questo è effetto delle croci comincio ad essere un po' impressionato.
La mattina dopo Padre Santino mi tranquillizza: nei quattro mesi di stagione secca una “piccola” pioggia è prevista, e per caso s'è combinata proprio la sera che siamo arrivati. Non pioverà più fino ad almeno metà settembre. Forse.

mercoledì 8 agosto 2007

Lunedì 6 agosto – Addis Abeba

Touring Addis Abeba

Ad Addis Abeba abbiamo solo un'ora di tempo per il cambio. Ieri sera al check-in il ragazzo dell'Ethiopian ci ha detto “in teoria un'ora è sufficiente per trasferire i bagagli”, e questo a dire il vero non ci ha rassicurato un granché. Ovviamente poi il volo è partito giusto con un'ora di ritardo... arriviamo al gate del volo per Kinshasa quando è ancora dato come “boarding”, ma le hostess ci dicono che il volo è chiuso, e dovremo rimanere in Etiopia fino al giorno seguente. Ci rassicurano sui bagagli, che saranno tenuti in aeroporto ad Addis Abeba ed imbarcati con noi il giorno dopo.

Il contrattempo, a dirla tutta, non è che ci dispiaccia più di tanto. Avremo un giorno per visitare Addis Abeba, e soprattutto qualche possibilità in più che i nostri otto bagagli (carichi di computer e materiali da lavoro, oltre che di vestiti e viveri) ci seguano tutti insieme.

Andiamo al banco transiti dell'Ethiopian, e nel giro di un'ora ci ritroviamo in una nuovissima navetta, in direzione di un bell'albergo in centro, insieme alle altre persone che hanno perso la stessa coincidenza (un gruppetto piuttosto variegato in cui spiccano due suore delle Mauritius e un enorme uomo d'affari congolese che somiglia a B.B. King). Pranziamo e poi andiamo a fare un giro con un tassista che ci guida per la città.

Inizio presto a realizzare di essere tornato in un'altra dimensione: i bambini scalzi che mendicano in strada, la puzza dei vecchi diesel, le baracche che vendono di tutto... Mi viene irrazionalmente un groppo in gola, che lascio scorrere via.

Per tanti altri versi però Addis Abeba mi sembra anche la prova di uno sviluppo possibile: è l'Africa così come me l'immaginavo due anni fa, quando ero a Fiumicino in attesa di partire per il Congo.

È un posto in cui all'aeroporto non bisogna pagare nessuno, nelle strade ci sono marciapiedi, segnali e strisce pedonali, i taxi sono colorati e hanno una licenza, le auto sono vecchie ma sono riempite con un numero normale di persone, le catapecchie si alternano a case dignitose, esistono i trasporti pubblici. Non sono solo segni di un benessere economico che si sta diffondendo, almeno nella capitale, ma sono anche tanti piccoli segni che esiste una base condivisa di convivenza civile, pur con tutte le difficoltà e i limiti di un paese del terzo mondo.

Quella stessa base che invece manca troppo spesso in un paese come il Congo, che forse ha ancora troppo vivo il ricordo di trent'anni di dittatura e saccheggio del mobutismo, e che sta cercando di costruire una convivenza civile sopra alle ferite di una guerra civile.

Domenica 5 agosto – Si riparte...

I Missionari

Arriviamo a Fiumicino al termine di una lunga domenica, per imbarcarci sul volo per Addis Abeba delle 1.50 di notte, un orario quantomeno insolito. Fiumicino per me è come un secondo ufficio, eppure non l'avevo mai visto a quell'ora, e mi trovo un po' spaesato... non so se è solo per la veste notturna dell'aeroporto, o se è per la destinazione che non è di quelle abituali. Forse è naturale che i luoghi di transito cambino faccia e identità a seconda della destinazione finale.

Si riparte per un altro progetto, un altro centro di formazione informatica, questa volta a Kingasani, una baraccopoli appena fuori Kinshasa, ed anche per cercare di riallacciare i fili del vecchio progetto, e tornare a salutare i partner e gli amici.

Due anni fa ero partito da solo (Claudio e Monica avevano il volo il giorno seguente), e mi ricordo bene il mio stato d'animo, con un fondo di agitazione cieca di uno che non ha troppo idea di dove sta andando.

Quest'anno siamo io Samuele e Daniele, e partiamo tutti e tre insieme. L'atmosfera è scherzosa, eppure un po' di tensione ce l'ho anche stavolta, una tensione che ci vede piuttosto bene (almeno spero), proprio perché un'idea di dove stiamo andando ora ce l'ho.

Ci siamo muniti di tre croci, più o meno vistose a seconda di quello che abbiamo trovato, da appenderci al collo, come ci hanno chiesto i missionari che ci verranno a prendere in aeroporto: dovrebbe essere un modo per facilitare le cose alla dogana.

Proviamo ad indossarle e scoppiamo a ridere guardandoci. Io non sono propriamente un credente, ma spero davvero che ci diano una mano.

Due anni fa

http://www.generazioney.com/page37/page37.html