sabato 28 marzo 2009

12-3-09 – Vaovao

Manifestazione fra intimi ad Ambatomena
Mishy vaovao?”, ovvero “ci sono novità?”. Questo è l'incipit tipico di una conversazione malgascia. Di solito si risponde “Tsi mishy vaovao”, nessuna novità, e quindi tutto va bene. Stamattina invece Delphin ha risposto con una frase diversa, che ha suscitato un po' di scalpore a riunione. Lui se la ride, ma questo non vuol dire molto, qui le notizie peggiori si dicono sempre ridendo. E infatti poi Stefano, che nelle riunioni si occupa di tradurre fra italiano e malgascio, mi spiega che Delphin ha detto che ci sono novità, e non sono buone.

In questi giorni siamo impegnati in un seminario della rete di associazioni con cui collaboriamo qui a Fianarantsoa. Lunghe sessioni intorno a un tavolo, italiani e malgasci, a fare valutazioni sui progetti in corso e sulle collaborazioni future, dalla mattina fino a buio. Poi ogni tanto si fa una pausa, Delphin controlla le ultime novità sulla crisi politica, e ne parliamo insieme. Negli ultimi giorni, più o meno da quando sono partito (che tempismo!) c'è stata una decisa escalation della crisi, dopo varie settimane di stallo. Nella capitale c'è una situazione di caos, come ho potuto vedere anch'io. Martedì, durante il mio primo giorno a Fiana, il capo di stato maggiore ha dato un ultimatum a Andry e Ravalomanana affinché trovassero un accordo entro 72 ore, altrimenti l'esercito avrebbe preso il potere. Per quanto l'ipotesi potesse sembrare sinistra, era in realtà vista di buon occhio da molti malgasci. L'esercito infatti, pur fra accese discussioni interne, appariva come una forza neutrale, e qua tutti si ricordano ancora dell'ultima volta che i militari presero il potere, negli anni '70. “C'etait interessant!”, dice Delphin; fu uno dei periodi più liberi per il paese, con uno dei governi meno corrotti.
L'ipotesi neutralista ad ogni modo è tramontata subito: ieri, neanche 24 ore dopo che aveva lanciato l'ultimatum, il capo di stato maggiore è stato destituito per decisione di un gruppo di generali, che hanno poi nominato il loro capo di stato maggiore, scelto fra i generali pro-Andry. Si tratta di fatto di un ammutinamento ai vertici dell'esercito, visto che stando alla costituzione il capo di stato maggiore dovrebbe essere nominato dal Presidente della Repubblica, e quindi la destituzione così come è avvenuta non è valida. Ad ogni modo il nuovo capo di stato maggiore, valido o meno che sia, ha subito detto che l'ultimatum era annullato.

Le brutte notizie di oggi invece sono che un gruppo di mercenari sudafricani, ingaggiati dal presidente Ravalomanana, sono sbarcati a Fort Dauphin e si stanno dirigendo verso Antananarivo. Il presidente potrà aver perso la lealtà dei vertici dell'esercito, ma rimane comunque l'uomo più ricco del Madagascar, padrone di tutti i mezzi di informazione, dei supermercati, delle industrie casearie, delle aziende che fanno le strade, di immensi latifondi, e del 95% dei parlamentari. Non cederà tanto facilmente. L'altra notizia, un po' più fumosa e non si sa quanto veritiera (non ne ho trovato conferme sui giornali), è che pare che anche Andry stia ingaggiando mercenari israeliani e olandesi, per ora parcheggiati all'isola della Reunion, per motivi di negoziazione sul prezzo. Nel frattempo insieme al vecchio capo di stato maggiore sembra tramontata definitivamente anche l'ipotesi di mantenere l'esercito neutrale. I vertici hanno scelto Andry, che quindi sembra attualmente in vantaggio. Ma l'esercito è tutto con loro? E a che prezzo vinceranno le ultime resistenze?

Nel pianificare il viaggio in Madagascar, Delphin mi aveva detto, a proposito della crisi politica, che il sopralluogo era un'occasione per vedere e discutere anche questi aspetti del paese, come in effetti stiamo facendo. “Così vedete coi vostri occhi, e riuscite a farvi un'idea”. Finora in realtà sono riuscito solo a ad aggiungere dubbi e domande alla lunga lista che avevo già prima di partire. Una notizia accertata è che fra i manifestanti pro-Andry ce ne sono diversi (almeno gli organizzatori e i capi-popolo) che sono pagati per farlo. Con quali soldi? Anche Andry è ricco, ma difficilmente può sostenere tutto quel movimento solo con soldi suoi. L'ipotesi che molti fanno è sia sostenuto da soldi dell'ambasciata francese, così come anche il presidente Ravalomanana. Vorrebbe dire che i francesi stanno di fatto incitando al conflitto, con finanziamenti passati sottobanco, assicurandosi così influenza sul paese chiunque vinca, e assicurandosi anche che il paese eviti di svilupparsi democraticamente. Ma mi sembra una spiegazione più che altro di abitudinaria dietrologia post-coloniale. Temo che la realtà sia più complicata (non necessariamente migliore), e che difficilmente si svelerà.
Un'altra notizia che sembra molto fondata è che da un lato i lealisti hanno infiltrato dei provocatori e dei malviventi fra i manifestanti, per creare caos, fomentare i pillages e gettare discredito, e dall'altro lato, simmetricamente, i capi dei manifestanti hanno pagato alcuni poliziotti per sparare un po' a casaccio, e screditare così la polizia. Uno dei due morti della manifestazione di Fianarantsoa della settimana scorsa infatti era un povero cristo che puliva i bagni pubblici, e si trovava lì per caso. Il poliziotto che gli ha sparato, ben conosciuto in città, lo ha mirato in modo apparentemente inspiegabile, visto che era distante diversi metri dal flusso dei manifestanti. In città dicono che quel poliziotto sia un amico stretto dei capi dei manifestanti, che ha voluto così dare modo al TGV di gridare allo scandalo contro il governo.

Mi torna in mente il vecchio detto giornalistico che la prima vittima, nei conflitti, è sempre la verità. Ed anche in questo caso è davvero difficile distinguere le voci dalle notizie, le leggende metropolitane dai fatti. Ho il timore che quello che sta succedendo davvero, nelle stanze del potere ad Antananarivo, non lo sappiamo affatto. L'unica cosa che appare chiara è che lo scontro è arrivato a un punto decisivo, che i due schieramenti si stanno armando, e che l'esercito è spaccato, con gli ammutinati che sembrano aver preso il sopravvento, ed i lealisti che non si sa ancora quanto pesino e come reagiranno. A mettere insieme queste poche constatazioni, il paese sembra davvero sul punto di scivolare dai “disordini” attuali verso una vera e propria guerra civile. Comincio a chiedermi se non sia il caso di considerare di anticipare il rientro in Italia. L'ultima volta che cambiò regime, sette anni fa, una delle prime infrastrutture a saltare fu uno dei ponti che della Route National 9 che collega Fiana a Tana, oggi ricostruito con fondi europei col nome di “Pont de la solidarité”. Rimanere bloccati qui, se si ripetesse un evento simile, sarebbe davvero un problema. Parlo con gli altri italiani che sono al seminario, i dubbi sono comuni.

Al tempo stesso, però, ci troviamo in un contesto che è quasi sempre stridente, in modo perfino surreale, rispetto alle notizie allarmistiche che discutiamo a intervalli regolari. È questo l'aspetto che stempera l'ansia e ridimensiona tutto, ma è anche il più difficile da raccontare. Non si tratta solo del fatto che, ad essere pragmatici, non abbiamo davvero passato neanche un momento di pur minima tensione, e abbiamo sempre continuato a lavorare, muoverci, scherzare e comunicare normalmente, in una città tranquilla. Ci sono anche tanti aspetti più intangibili che contribuiscono, in modo più o meno consapevole, a comporre l'aria che si respira. Come ad esempio le facce dei militari. A Kinshasa, durante entrambi i miei viaggi precedenti, non credo di averne mai visto uno sorridere. Qui invece scherzano e guardano le donne che passano in strada, come dei militari di leva in libera uscita. Non danno l'idea di ragazzi che pensano di potersi ritrovare in guerra da un giorno all'altro. La crisi politica è un argomento di conversazione sulla bocca di tutti, e fra i malgasci mi sembra di percepire anche un certo gusto paesano a enfatizzare le notizie al di là della loro effettiva portata, a fare autoironia, a prendere in giro il grande capo malgrado sia potente e faccia spavento. Tutti aspetti che, con le dovute proporzioni, da italiano mi suonano abbastanza familiari. Con i congolesi era tutto radicalmente diverso: erano (sono) un grumo di popoli diversi, traumatizzati da troppe tragedie antiche e recenti, e la comunicazione sulle cose più serie avveniva più che altro attraverso tutto ciò che non si diceva. In tutto il tempo passato a Kinshasa non ho mai ascoltato nessuno fare ironia su Kabila. Gli ultimi scontri politici, nel marzo del 2007, non avvennero fra manifestanti e polizia come qui, ma fra i due eserciti personali dei due leader della guerra, a colpi di cannonate in centro città: 700 soldati uccisi o dispersi in neanche tre giorni. Gli schieramenti politici congolesi seguono schemi rigorosamente etnici, marcati da divisioni di lingua e cultura oltre che di provenienza geografica. In alcuni casi c'erano storie recenti di sangue e atrocità fra i diversi popoli, e ci vorranno decenni per sanarle. Qui in Madagascar ci sono 18 tribù, ma parlano tutte più o meno la stessa lingua, sono spesso mischiate per via dell'immigrazione interna, bevono birra insieme, e sono trasversalmente attraversate dalla divisione politica fra i due attuali contendenti TIM e TGV. Insomma, per quanto ho potuto capire in questi pochi giorni, lo scontro avviene più che altro uno scontro fra gruppi di potere, coinvolgendo gli oligarchi e i loro entourages, giù giù fino ai funzionari locali, ma senza movimentare davvero le masse popolari, che guardano il tutto con un distaccato e cinico sarcasmo.

Non ho idea di come evolverà la crisi: ci sono molte notizie sinistre, e c'è un popolo all'apparenza gioviale e sereno che però ha dato anche prova di essere capace di slanci di inaspettata violenza. Di sicuro, comunque, c'è almeno che il contesto malgascio è completamente diverso rispetto a quelli che portarono alle guerre atroci degli ultimi 15 anni nell'Africa sub-sahariana. Per noi europei, che tendiamo a vedere l'Africa come un unico indistinto calderone, è già qualcosa di importante da imparare.

mercoledì 25 marzo 2009

10-3-09 – Madagascar

Per le strade di Tana

L'Airbus A340 è vuoto più o meno per due terzi dei suoi posti. La signora che mi sta di fianco, una consulente franco-cilena della Banca Mondiale che viene in Madagascar per un rapido incarico fra un missione in Kenya e una in Pakistan, si è spostata per stendersi su una intera fila centrale da quattro sedili, e così anch'io ho due sedili per allungarmi un po'. In queste settimane in cui in Madagascar c'è “crisi istituzionale” Air France ha riprogrammato il volo per Antananarivo per farlo arrivare alle due di pomeriggio, anziché all'una di notte, ed evitare così il coprifuoco. Già che c'erano, visto che i passeggeri sono comunque pochi, l'hanno accorpato col volo di linea per Mauritius, dove fanno uno scalo e il cambio di equipaggio, così che hostess e piloti si fermino lì anziché a Tana. Grazie a questa variazione, le dieci ore di volo dell'orario originale sono diventate quindici, ed ho tutto il tempo di mettermi finalmente al passo con le ultime uscite cinematografiche, grazie all'ottimo programma di intrattenimento a bordo.
All'arrivo in aeroporto l'accoglienza efficiente, cortese e sorridente è quella tipica dei luoghi di villeggiatura, giusto un po' fuori stagione vista l'abbondanza del personale in proporzione ai passeggeri.
All'uscita trovo ad aspettarmi due belle ragazze, con un cartello con su scritto “Sylvio / Ingenieurs Sans Frontieres”. Ci sono due errori in sole quattro parole, uno ortografico (la y per la i) e l'altro semantico (gli ingegneri per l'ingegneria). Entrambi sono abbastanza tipici, quindi decido di soprassedere. Le ragazze sono di una cooperativa di trasporti, e sono venute a prendermi insieme ad altri due uomini che ci aspettano in un pullmino: uno è l'autista, l'altro invece se ne sta seduto in fondo senza dire una parola.
Quella delle due che parla un po' meglio il francese mi chiede subito se sono informato sulla crisi politica malgascia. Certamente! Da qualche settimana ho seguito tutti i giorni il sito di Radio France Inter: ho letto della protesta lanciata da gennaio dal sindaco della capitale, Andry Rajoelina, contro il presidente della repubblica, Marc Ravalomanana. Ci sono state tutta una serie di manifestazioni di piazza, alla Place du 13 Mai di Antananarivo, in un paio di casi sedate in modo tragico dalla polizia, che ha fatto diverse decine di morti fra i manifestanti. Le manifestazioni e i disordini sembrano limitate alla capitale, a parte una sporadica manifestazione con due morti a Fianarantsoa della settimana precedente. Il dialogo fra i due sembra non aver sortito esiti finora, e quindi da quanto ho capito continua ad essere consigliabile stare alla larga dalle manifestazioni. A parte questo, la situazione del paese è pacifica.
La ragazza prosegue comunque commentando “vous avez été courageux a venir ici maintenant!”. Il complimento, tradotto e applicato alla mia persona, vuol dire che probabilmente devo preoccuparmi di più. In effetti la prima impressione che ho mentre attraversiamo il traffico cittadino è un po' diversa da quella che ero riuscito a farmi leggendo RFI: le “manifestazioni” in realtà spuntano di continuo. Di fatto, la città è in uno stato di mobilitazione permanente. In molte strade passiamo a zig-zag fra i resti di qualche barrage fatto con ogni mezzo a disposizione: file di pietre, pneumatici bruciati o cassoni pieni di sabbia. In una rotonda passiamo in mezzo a un gruppo di gente che si sta radunando, e la ragazza commenta “anche qui?” e mostra un po' di nervosismo. Mezzo chilometro dopo incrociamo due camion carichi di poliziotti in assetto da combattimento che passano di fretta lungo la strada.
La ragazza nel frattempo mi racconta che in questi ultimi due giorni la situazione si è fatta più calda, e che ieri notte mentre ero in volo è stato ammazzato un manifestante. Mi spiega aiutandosi coi gesti che i poliziotti l'hanno lasciato appeso in strada, per intimidire gli altri.(1)
Vorrei fare delle foto ma non so se è il caso, con i poliziotti in giro. Lo chiedo alla ragazza, che mi risponde che posso scattare tutte le foto che voglio, e anzi si mette a ridere per il fatto che mi sia posto uno scrupolo tanto buffo.
L'associazione con cui collaboriamo, vista la situazione, ha deciso che è meglio che non passi la notte ad Antananarivo come inizialmente previsto, e che vada subito a Fianarantsoa col taxi-brousse delle 18. Così vengo portato direttamente in stazione. Passo tre ore ad aspettare, leggiucchiando un po' nell'ufficio della cooperativa. Sono l'unico bianco in tutta la stazione, e quindi suscito una naturale curiosità. Un signore entra e mi apostrofa coloritamente in malgascio, con un tono che mi pare decisamente sarcastico. Le ragazze sghignazzano, non so se per lui, per me o per entrambi. Chiedo spiegazioni, e mi dicono che mi sta dicendo che devo parlare malgascio, visto che a lui se va in Francia gli tocca parlare francese. Gli spiego che in realtà sono italiano, e che anche io vivo la sua stessa sorte, poiché appena esco dal mio paese nessuno capisce più la mia lingua. Comunque gli prometto che in due settimane farò del mio meglio per imparare un po' di malgascio. Lo scambio interculturale finisce fra le risate generali.

Il taxi-brousse alle sei meno un quarto è già pieno, e quindi si parte con un po' di anticipo. E' un pullmino Mazda in condizioni più che dignitose, con tutti i suoi sedili originali al loro posto, e quando lo vedo tiro un sospiro di sollievo. Il viaggio sarà lungo, e il ricordo dei taxi-bus di Kinshasa mi spaventava un po'. L'associazione m'ha addirittura prenotato due posti per farmi stare più comodo, e gli altri passeggeri mi guardano per questo con un'aria un po' seccata. La cosa mi imbarazza un po', e così mi piazzo all'angolo della fila, occupandone solo uno. Il passeggero alla mia destra s'allarga quasi subito ad occupare anche il mio secondo posto, e ci dormirà rannicchiato per quasi tutto il viaggio.

Ci vogliono circa dieci ore per coprire i 400 km che separano Fianarantsoa da Antananarivo. Viaggiamo di notte ma comunque c'è un discreto traffico, tutti i taxi-brousse che fanno collegamenti notturni viaggiano normalmente anche in questo periodo. Il “coprifuoco” consiste di fatto nell'obbligo di girare con i documenti se si esce di notte, ovvero quello che a Kinshasa dovevamo fare anche di giorno in periodi non di crisi. Una volta usciti dalla regione della capitale, nel tratto di strada poco popolato fra Antsirabé e Ambositra, ci accodiamo a una fila di sette o otto taxi-brousse, e si va avanti in carovana per buona parte del tragitto, per motivi di sicurezza e solidarietà contro briganti, rapine o anche semplici contrattempi meccanici. Ogni volta che ci fermiamo mi sveglio, come per un riflesso condizionato. Lungo tutto il tragitto conto sei posti di blocco dell'esercito, tutti consistenti in un rapido e burocratico controllo dei documenti dell'autista, e un'occhiata veloce con una torcia ai passeggeri, senza che i militari chiedano mai soldi, o battano ciglio per la presenza di un bianco. La settimana scorsa Massimiliano, lungo lo stesso tragitto, era stato fermo più di un'ora a un blocco in cui i militari avevano estorto dei soldi, ma a quanto pare sono comunque fenomeni sporadici.

Arriviamo a Fianarantsoa alle 4 e mezza di mattina, dopo quasi 36 ore dalla mia partenza da Roma. Siamo un po' in anticipo sull'orario previsto, e Delphin, il responsabile dell'associazione, non è ancora arrivato in stazione. Lo chiamo, e arriva dopo una ventina di minuti, a piedi (a quell'ora non ci sono taxi sotto casa sua). Dalla stazione prendiamo un taxi, una vecchia Renault 4 che mi ricorda la mia infanzia, e ce ne andiamo a casa.

(1) Nei giorni successivi, a Fianarantsoa, non ho trovato nessuna conferma di questa notizia. Nessuno la trovava inverosimile, ma nessuno ne sapeva nulla. Non so se si è trattato effettivamente di un atto violento passato sotto silenzio, o semplicemente di una delle tante leggende metropolitane e voci ansiogene che circolavano nel paese.