venerdì 17 aprile 2009

18-3-09 Colpo di stato

Le danze (1)
Così molti paesi dell'Africa vivono già la seconda tappa della loro breve storia, iniziata dopo la guerra. La prima tappa sono state la decolonizzazione accelerata e la conquista dell'indipendenza, avvenute in un clima di ottimismo, di entusiasmo e di generale euforia. La gente era convinta che la libertà si sarebbe tradotta in un tetto più solido sulla testa, in una scodella di riso più abbondante, nel primo paio di scarpe della sua vita. Che si sarebbe verificato il miracolo della moltiplicazione dei pani, dei pesci e del vino. Viceversa non accadde niente del genere, anzi ci fu un esorbitante afflusso di popolazione nelle città per cui presto mancarono cibo, scuole e lavoro. L'ottimismo lasciò il posto alla delusione e al pessimismo.
Tutta l'amarezza, la rabbia e l'odio si riversarono sulle élite, la cui principale occupazione era quella di arricchirsi velocemente. In un paese privo di grande industria privata, dove le piantagioni appartengono agli stranieri e le banche al capitale estero, l'unico mezzo per fare fortuna è la carriera politica.
La miseria delle classi più basse da una parte e l'avidità e l'ingordigia di quelle alte dall'altra finiscono per creare un'atmosfera tesa e avvelenata che non sfugge all'esercito. Indossati i panni dei difensori dei deboli e degli oppressi, i militari escono dalle caserme e si impadroniscono del potere.

Ryszard Kapuscinkski, a proposito del colpo di stato nigeriano del 1966, in “Ebano”

Lunedì sera

Delphin non era con noi a cena stasera, e così, unico maschio a tavola, è toccato a me l'onore di iniziare a mangiare per primo. Mentre prendevo il riso m'è arrivato un SMS, ma vista la solennità del momento ho lasciato che il telefono vibrasse nella tasca, e l'ho preso solo a fine cena. Era un messaggio dell'Unità di Crisi della Farnesina, che scriveva di “evitare assolutamente Iavoloha”, ovvero la residenza presidenziale di Ravalomanana, poco fuori Antananarivo. Di per sé non era certo un gran notizia: anche se fossi stato a Tana non mi sarebbe neanche passato per la mente d'andare a fare gite turistiche a Iavoloha di questi tempi. Il fatto che da Roma si siano presi la briga di mandare SMS agli italiani però vuol dire che stava succedendo qualcosa di più grave del solito. Pochi minuti dopo mi è arrivata una telefonata da un numero fisso di Roma, che non conoscevo, e lì per lì sono sobbalzato, temendo che fosse l'Unità di Crisi con notizie peggiori. Invece era semplicemente Davide che mi chiamava dal nostro nuovo ufficio, per dirmi che sul Corriere era uscita la notizia che i militari hanno preso il potere. Mi sono fatto leggere la notizia d'agenzia, e l'ho tradotta al volo a Delphin, che era appena rientrato. Non si sa ancora se si tratta di un colpo di stato “neutralista”, o piuttosto di una presa di potere della fazione pro-Andry. Quest'ultima ipotesi mette qualche pensiero in più, visto che non si sa come reagirebbe in tal caso l'ala legalista dell'esercito, e cosa farà Ravalomanana. Con qualche altra telefonata poi abbiamo saputo che Andry oggi ha dichiarato di aver ricevuto 50 milioni di dollari di finanziamenti internazionali, non si sa bene da chi e perché. È probabile che tale dichiarazione, che lascia intendere uno spostamento degli equilibri internazionali sfavorevole a Ravalomanana, sia stata la mossa determinante per far decidere i militari a muoversi dopo tanto temporeggiare. Andiamo a dormire senza altre notizie.

Martedì sera

Stamattina siamo partiti presto per andare, come programmato già da giorni, a visitare i contadini di Befeta, una comunità rurale a una quarantina di km da Fianarantsoa. Per coprire tale distanza, in macchina, ci vogliono più o meno 5 ore, e di nuovo mi è tornato in mente Kapuscinsky, che scriveva che in Africa le distanze si misurano in ore e giorni, piuttosto che in km.
In effetti più che un viaggio nello spazio andare a Befeta è davvero un viaggio nel tempo, non solo per la durata, ma anche perché ci si allontana progressivamente dall'asfalto, dalla rete elettrica, dal mondo in cui funzionano i cellulari, per raggiungere luoghi di un altro secolo, dove si vive di agricoltura senza trattori né impianti di irrigazione, e ci si sposta a piedi o su carretti trainati da coppie di zebù. Abbiamo passato una giornata intensissima, fra rituali di accoglienza codificati da immutabili tradizioni, un bellissimo pranzo comunitario servito su un pavimento coperto di tzihi intessuti a mano, riunioni, canti scritti per l'occasione (fra cui uno sorprendente dei bambini del villaggio che cantavano strofe sulle loro esperienze di microcredito), e balli e feste.

Non appena siamo rientrati nel mondo in cui funzionano i cellulari, stasera, ho chiamato in Italia per chiedere cosa è successo oggi 400 km più a nord di qui, e capire se nel frattempo era scoppiata una guerra oppure no.

Il potere l'hanno preso i militari pro-TGV, dopo aver accerchiato per qualche ora il palazzo presidenziale, e l'hanno conferito ad Andry subito dopo. Questa era l'ipotesi che fino a ieri ritenevamo la più inquietante, e invece sembra che Ravalomanana, anziché resistere fino alla morte nel suo fortino coi suoi soldati come aveva sempre dichiarato, si sia dimesso, o comunque abbia ceduto il potere ai militari, e che l'ala legalista dell'esercito segua per ora passivamente gli eventi senza battere ciglio. Insomma, il lungo scontro istituzionale sembra concluso, con la vittoria di Andry su tutta la linea.
La prima reazione, specie fra gli italiani, è stata di grande sollievo, se non apertamente di giubilo. Non perché parteggiassimo per un oligarca o per l'altro, ma semplicemente perché s'è scongiurato il peggio, è finito lo scontro, e ci siamo liberati di quel fondo d'incertezza costante degli ultimi giorni.
Per i meccanismi paradossali dei media occidentali, proprio ora escono invece le notizie sui principali giornali italiani e cominciano quindi ad allarmarsi amici e parenti. Ci vuole un po' di impegno per tranquillizzarli tutti.

Mercoledì mattina

Questa mattina, prima di un altro viaggio programmato al parco nazionale di Rano Mafana, sono riuscito ad andare in Internet a leggere un po' di notizie. L'editoriale di Sobika, con un gioco di parole geniale e un umorismo cinico e sconsolato tipicamente malgascio, parla di un paese che vorrebbe essere una Republique ma si conferma ancora una Ruepublique, una strada-pubblica, in cui non c'è mai stato un governo o un presidente che abbiano perso le elezioni, e il potere si è sempre rinnovato con moti di piazza più o meno violenti, e con le conseguenti e determinanti oscillazioni dei militari.

È la nota più amara di tutta questa vicenda, che ha portato ad una nuova ferita armata alle aspirazioni democratiche di questo paese che, malgrado abbia avuto il suo '72, i movimenti studenteschi, la decolonizzazione, una storia politica e una società civile sicuramente più vive e mature di tanti altri contesti africani, continua comunque ad essere una democrazia perennemente adolescente. Delphin, che ha una fiducia pressoché nulla in entrambi gli oligarchi e legge ogni evento con un cinico e quasi divertito distacco, mi sorprende quando mi confessa con amarezza: “come malgascio, avrei preferito che Ravalomanana si fosse fatto ammazzare per difendere il suo ruolo costituzionale come aveva promesso, piuttosto che cedere il potere in quel modo”.

È confortante sapere che gli scontri sono finiti, ma al tempo stesso i malgasci devono fare i conti anche con l'umiliazione di vedere le sorti del loro paese decise, ancora una volta, da un gruppo di generali ammutinati.

lunedì 13 aprile 2009

16-3-09 – La radio

Radio Mapita

La crisi politica malgascia è cominciata da una radio. Quella di Andry, si chiamava Viva Radio. È da lì che “TGV” ha prima lanciato la sua corsa a sindaco, e poi recentemente la sua campagna contro Ravalomanana, a colpi di slogan più o meno “sinistrorsi” sulla lotta alla povertà. Slogan simili a quelli che sette anni prima lo stesso Ravalomanana, allora anche lui sindaco della capitale, lanciava contro Didier Ratsiraka, il vecchio presidente oggi in esilio in Francia.
Andry sta seguendo un percorso simile, quasi ormai fosse una specie di cursus honorum codificato: il potere economico (nel suo caso fatto di media e pubblicità), l'elezione a sindaco della capitale, l'appoggio dei francesi, e poi le proteste di piazza contro il presidente in carica, con l'obiettivo di rimpiazzarlo, spaccando l'esercito e mescolando mezzi istituzionali ad altri decisamente meno ortodossi. A dicembre il governo, che si è distinto per liberismo ma non certo per liberalismo né per rispetto dei diritti umani, ha fatto chiudere Viva Radio, dopo che avevano trasmesso un'intervista a Didier Ratsiraka molto critica contro il potere in carica. Ma ormai il processo dei moti di piazza era avviato.

Il potere della radio qui ha qualcosa di sinistro, più che sinistrorso, per come viene utilizzato per aizzare la folla in manifestazioni che sono fatte più di rabbia e sentimenti di massa che di ragione e coscienze.
Niente di particolarmente nuovo: la storia africana, così come la nostra, ha vissuto esempi ben più drammatici di questo perverso meccanismo mediatico. Quello più tragico fu Radio Mille Collines, che nel novantaquattro rwandese fu l'ingranaggio fondamentale della agghiacciante macchina di propaganda che portò un popolo intero a perdere umanità e coscienze individuali, e a diventare carnefice.
Qui, in un contesto completamente diverso, c'è comunque un inquietante elemento di fascismo nell'uso della radio per irregimentare le masse: gli slogan sono contro la povertà e contro l'ostentata ricchezza del presidente, ma al di là di quelli non sono riuscito a capire, leggendo e parlando con le persone, quale sia il programma e l'identità politica effettiva di Andry. Nessuno lo sa, probabilmente perché un'identità politica non c'è. A parole, sia lui che Ravalomanana dovrebbero essere liberali all'americana. Andry si distingue professando giovanilismo, dinamismo e culto della velocità, tanto da identificare un intero partito, con un gioco di parole, nel TGV, il treno veloce francese. (Per un italiano tutto ciò è goffamente retrò, nel centenario della fondazione del futurismo. Queste cose le abbiamo inventate noi tanto tempo fa!) I suoi militanti ostentano sicurezza, minacciano violenza, usano metodi spicci e fanno paura a chi non è allineato, atteggiamenti più vicini allo squadrismo che al liberalismo. Della loro identità politica profonda, alla fin fine, tutto quello che sono riuscito a capire e che vogliono prendere il potere, più o meno con qualunque mezzo a disposizione. È la radio è stata il mezzo iniziale.

Io in Madagascar ci sto per studiare la fattibilità di un progetto che si propone di mettere su una nuova radio. Tutte queste idee mi frullano in testa: la “fattibilità”, in questo contesto, non è tanto una questione tecnica, ma è prima di tutto una questione di fiducia. Il mio compito principale è conoscere e capire le persone con cui lavoriamo, e fare in modo che loro attraverso me conoscano tutta un'associazione, e i suoi princìpi.
Le esperienze fatte in questi giorni sono state importanti. La “nostra” radio sarà in mano ad una rete di associazioni di base malgasce, che si propone di fare formazione e informazione per i contadini, quelli che spesso non sanno ancora nemmeno che non c'è più Ratsiraka, e che sono esclusi dalla partecipazione democratica. Sulla porta della stanza dove ci riuniamo, a casa di Delphin, c'è attaccata la dichiarazione universale dei diritti umani, che fa da guida a tutti e a tutte. I soci più attivi dell'associazione sono in buona parte ragazze, quelle che i diritti negati li vivono spesso sulla propria pelle. Nelle riunioni-fiume si discute su come promuovere partecipazione, coscienza e responsabilità individuale. Ma più ancora dei contenuti è la forma degli incontri, espressione spesso inconsapevole di un mondo autenticamente e fieramente contadino, a darmi fiducia.

Visti i presupposti, se riusciremo davvero a mettere su una nuova radio non è detto che poi il governo non ce la chiuda dopo qualche settimana, chiunque sarà il presidente. Ma proprio per questo vale la pena provarci.

venerdì 3 aprile 2009

15-3-09 – La crescita

Koinonìa

Quante cose servono per vivere felici o per lo meno sereni?
Partendo per il sud del mondo bisogna essere disposti ad essere ogni volta spiazzati nello scoprire un nuovo pezzetto della propria identità di “europeo”. Insomma ci si mette in gioco, e su quella china si può facilmente finire a mettersi in discussione. Come quando si incontrano persone come Enrico o Gabriele che, partendo da percorsi non così distanti dai miei, hanno fatto scelte ben più radicali, e vivono in Madagascar, alla malgascia, in case popolari, col bagno fuori e senza acqua corrente, bevendo la stessa acqua e mangiando lo stesso cibo degli altri, sostentandosi con lavori saltuari e spostandosi coi mezzi pubblici.
Basta guardarli negli occhi per capire che nel loro percorso, personale e unico, hanno trovato qualcosa, forse equilibrio e serenità, la stessa che ho visto anche in diversi malgasci.
Vivere la cooperazione con questo spirito di condivisione totale, superando o vivendo con maggiore tranquillità le barriere fatte di pastiglie, zanzariere, docce calde e jeep lucide può avere degli effetti sorprendenti. Non è tanto la scelta un po' “francescana” di rinuncia definitiva alla vita occidentale che colpisce la mia attenzione: quella non può essere un modello generale, visto che è giusto che gli occidentali continuino a vivere in occidente, e seguano un loro percorso di crescita. Ma sperimentare quella stessa condivisione, per dei periodi più o meno lunghi, prima di tornarsene a casa, è qualcosa che invece possono fare tutti. E scoprire qual è la propria soglia inferiore può essere sorprendente e per certi versi terapeutico. Ci si può accorgere che si campa benissimo anche senza computer né internet in casa, senza blackberry, senza acqua calda, senza andare a mangiar fuori, senza automobile, in abitazioni spartane, con un paio di scarpe e poche magliette, con le pulci che ti pungono, e una collezione di ragni e scarabei che ti tengono compagnia in stanza o al bagno. E con questa dotazione minima ritrovarsi ad andare a dormire la sera senza stress, stendersi sopra un materasso di gomma piuma di quelli che dopo 5 minuti hanno già un incavo che ha la forma del tuo corpo, e metabolizzare una giornata serena, magari passata ridendo, scherzando e chiacchierando, o una serata allegra scandita da brindisi di rhum casereccio.

Provare per un po' a “vivere al minimo” è un esperimento che tutti dovrebbero fare, se non altro per rendersi conto che spendiamo buona parte della nostra vita e delle nostre limitate capacità di preoccuparsi e concentrarsi per dei bisogni che vanno quasi sempre dal “rinunciabile” all'”inutile”, quando non sono addirittura dannosi, e che quelle energie potrebbero essere riequilibrate e dedicate a cose più significative, senza necessariamente cambiare vita o imporsi rinunce anche quando non servono.

Discutendone con gli altri mi trovo a riflettere sul fatto che lo stesso esperimento, provato in Italia, è molto più difficile, perché diventa un ostacolo alle relazioni. In Italia senza dieci euro in tasca per prendersi una birra o un aperitivo è difficile anche incontrarsi gli amici. Per la prima volta mi rendo conto di quanto sia assurdo tutto ciò. Qual è stato il momento, nella nostra storia, in cui in nome del “progresso” abbiamo perso perfino la capacità di incontrare altre persone senza imporre una barriera di disponibilità economica?
Continuiamo a discutere di nuovi modelli di sviluppo, più sostenibili, di “decrescita” (termine che ha un'aura un po' sfigata che non mi è mai piaciuta), di rimpiazzare il PIL con altri criteri, per ridefinire il significato stesso di progresso, e proprio in questo periodo storico ci stiamo accorgendo di quanto tutto ciò sia necessario. Ma lo facciamo quasi sempre all'occidentale, in un'ottica tutta economica e politica. Presi dalle nostre distrazioni e dalle nostre passioni, ci siamo scordati di cercare l'uomo. Le nostre culture contadine, il vero collante della nostra civiltà, le abbiamo perse, rimpiazzate da culture di cartapesta.

Quand'è che nel nostro percorso abbiamo svoltato per la strada sbagliata? Possibile che non ci sia un modo di tenersi l'istruzione, la sanità, la scienza, la laicità e ripensare tutto il resto in un'ottica più umana? Possibile che, mentre penso questo, nel mio paese si rimettano in discussione proprio l'istruzione, la sanità, la scienza e la laicità, mentre tutto il resto rimane sugli stessi binari ed anzi va peggiorando? Ma perché mi ritrovo sempre in controfase?

sabato 28 marzo 2009

12-3-09 – Vaovao

Manifestazione fra intimi ad Ambatomena
Mishy vaovao?”, ovvero “ci sono novità?”. Questo è l'incipit tipico di una conversazione malgascia. Di solito si risponde “Tsi mishy vaovao”, nessuna novità, e quindi tutto va bene. Stamattina invece Delphin ha risposto con una frase diversa, che ha suscitato un po' di scalpore a riunione. Lui se la ride, ma questo non vuol dire molto, qui le notizie peggiori si dicono sempre ridendo. E infatti poi Stefano, che nelle riunioni si occupa di tradurre fra italiano e malgascio, mi spiega che Delphin ha detto che ci sono novità, e non sono buone.

In questi giorni siamo impegnati in un seminario della rete di associazioni con cui collaboriamo qui a Fianarantsoa. Lunghe sessioni intorno a un tavolo, italiani e malgasci, a fare valutazioni sui progetti in corso e sulle collaborazioni future, dalla mattina fino a buio. Poi ogni tanto si fa una pausa, Delphin controlla le ultime novità sulla crisi politica, e ne parliamo insieme. Negli ultimi giorni, più o meno da quando sono partito (che tempismo!) c'è stata una decisa escalation della crisi, dopo varie settimane di stallo. Nella capitale c'è una situazione di caos, come ho potuto vedere anch'io. Martedì, durante il mio primo giorno a Fiana, il capo di stato maggiore ha dato un ultimatum a Andry e Ravalomanana affinché trovassero un accordo entro 72 ore, altrimenti l'esercito avrebbe preso il potere. Per quanto l'ipotesi potesse sembrare sinistra, era in realtà vista di buon occhio da molti malgasci. L'esercito infatti, pur fra accese discussioni interne, appariva come una forza neutrale, e qua tutti si ricordano ancora dell'ultima volta che i militari presero il potere, negli anni '70. “C'etait interessant!”, dice Delphin; fu uno dei periodi più liberi per il paese, con uno dei governi meno corrotti.
L'ipotesi neutralista ad ogni modo è tramontata subito: ieri, neanche 24 ore dopo che aveva lanciato l'ultimatum, il capo di stato maggiore è stato destituito per decisione di un gruppo di generali, che hanno poi nominato il loro capo di stato maggiore, scelto fra i generali pro-Andry. Si tratta di fatto di un ammutinamento ai vertici dell'esercito, visto che stando alla costituzione il capo di stato maggiore dovrebbe essere nominato dal Presidente della Repubblica, e quindi la destituzione così come è avvenuta non è valida. Ad ogni modo il nuovo capo di stato maggiore, valido o meno che sia, ha subito detto che l'ultimatum era annullato.

Le brutte notizie di oggi invece sono che un gruppo di mercenari sudafricani, ingaggiati dal presidente Ravalomanana, sono sbarcati a Fort Dauphin e si stanno dirigendo verso Antananarivo. Il presidente potrà aver perso la lealtà dei vertici dell'esercito, ma rimane comunque l'uomo più ricco del Madagascar, padrone di tutti i mezzi di informazione, dei supermercati, delle industrie casearie, delle aziende che fanno le strade, di immensi latifondi, e del 95% dei parlamentari. Non cederà tanto facilmente. L'altra notizia, un po' più fumosa e non si sa quanto veritiera (non ne ho trovato conferme sui giornali), è che pare che anche Andry stia ingaggiando mercenari israeliani e olandesi, per ora parcheggiati all'isola della Reunion, per motivi di negoziazione sul prezzo. Nel frattempo insieme al vecchio capo di stato maggiore sembra tramontata definitivamente anche l'ipotesi di mantenere l'esercito neutrale. I vertici hanno scelto Andry, che quindi sembra attualmente in vantaggio. Ma l'esercito è tutto con loro? E a che prezzo vinceranno le ultime resistenze?

Nel pianificare il viaggio in Madagascar, Delphin mi aveva detto, a proposito della crisi politica, che il sopralluogo era un'occasione per vedere e discutere anche questi aspetti del paese, come in effetti stiamo facendo. “Così vedete coi vostri occhi, e riuscite a farvi un'idea”. Finora in realtà sono riuscito solo a ad aggiungere dubbi e domande alla lunga lista che avevo già prima di partire. Una notizia accertata è che fra i manifestanti pro-Andry ce ne sono diversi (almeno gli organizzatori e i capi-popolo) che sono pagati per farlo. Con quali soldi? Anche Andry è ricco, ma difficilmente può sostenere tutto quel movimento solo con soldi suoi. L'ipotesi che molti fanno è sia sostenuto da soldi dell'ambasciata francese, così come anche il presidente Ravalomanana. Vorrebbe dire che i francesi stanno di fatto incitando al conflitto, con finanziamenti passati sottobanco, assicurandosi così influenza sul paese chiunque vinca, e assicurandosi anche che il paese eviti di svilupparsi democraticamente. Ma mi sembra una spiegazione più che altro di abitudinaria dietrologia post-coloniale. Temo che la realtà sia più complicata (non necessariamente migliore), e che difficilmente si svelerà.
Un'altra notizia che sembra molto fondata è che da un lato i lealisti hanno infiltrato dei provocatori e dei malviventi fra i manifestanti, per creare caos, fomentare i pillages e gettare discredito, e dall'altro lato, simmetricamente, i capi dei manifestanti hanno pagato alcuni poliziotti per sparare un po' a casaccio, e screditare così la polizia. Uno dei due morti della manifestazione di Fianarantsoa della settimana scorsa infatti era un povero cristo che puliva i bagni pubblici, e si trovava lì per caso. Il poliziotto che gli ha sparato, ben conosciuto in città, lo ha mirato in modo apparentemente inspiegabile, visto che era distante diversi metri dal flusso dei manifestanti. In città dicono che quel poliziotto sia un amico stretto dei capi dei manifestanti, che ha voluto così dare modo al TGV di gridare allo scandalo contro il governo.

Mi torna in mente il vecchio detto giornalistico che la prima vittima, nei conflitti, è sempre la verità. Ed anche in questo caso è davvero difficile distinguere le voci dalle notizie, le leggende metropolitane dai fatti. Ho il timore che quello che sta succedendo davvero, nelle stanze del potere ad Antananarivo, non lo sappiamo affatto. L'unica cosa che appare chiara è che lo scontro è arrivato a un punto decisivo, che i due schieramenti si stanno armando, e che l'esercito è spaccato, con gli ammutinati che sembrano aver preso il sopravvento, ed i lealisti che non si sa ancora quanto pesino e come reagiranno. A mettere insieme queste poche constatazioni, il paese sembra davvero sul punto di scivolare dai “disordini” attuali verso una vera e propria guerra civile. Comincio a chiedermi se non sia il caso di considerare di anticipare il rientro in Italia. L'ultima volta che cambiò regime, sette anni fa, una delle prime infrastrutture a saltare fu uno dei ponti che della Route National 9 che collega Fiana a Tana, oggi ricostruito con fondi europei col nome di “Pont de la solidarité”. Rimanere bloccati qui, se si ripetesse un evento simile, sarebbe davvero un problema. Parlo con gli altri italiani che sono al seminario, i dubbi sono comuni.

Al tempo stesso, però, ci troviamo in un contesto che è quasi sempre stridente, in modo perfino surreale, rispetto alle notizie allarmistiche che discutiamo a intervalli regolari. È questo l'aspetto che stempera l'ansia e ridimensiona tutto, ma è anche il più difficile da raccontare. Non si tratta solo del fatto che, ad essere pragmatici, non abbiamo davvero passato neanche un momento di pur minima tensione, e abbiamo sempre continuato a lavorare, muoverci, scherzare e comunicare normalmente, in una città tranquilla. Ci sono anche tanti aspetti più intangibili che contribuiscono, in modo più o meno consapevole, a comporre l'aria che si respira. Come ad esempio le facce dei militari. A Kinshasa, durante entrambi i miei viaggi precedenti, non credo di averne mai visto uno sorridere. Qui invece scherzano e guardano le donne che passano in strada, come dei militari di leva in libera uscita. Non danno l'idea di ragazzi che pensano di potersi ritrovare in guerra da un giorno all'altro. La crisi politica è un argomento di conversazione sulla bocca di tutti, e fra i malgasci mi sembra di percepire anche un certo gusto paesano a enfatizzare le notizie al di là della loro effettiva portata, a fare autoironia, a prendere in giro il grande capo malgrado sia potente e faccia spavento. Tutti aspetti che, con le dovute proporzioni, da italiano mi suonano abbastanza familiari. Con i congolesi era tutto radicalmente diverso: erano (sono) un grumo di popoli diversi, traumatizzati da troppe tragedie antiche e recenti, e la comunicazione sulle cose più serie avveniva più che altro attraverso tutto ciò che non si diceva. In tutto il tempo passato a Kinshasa non ho mai ascoltato nessuno fare ironia su Kabila. Gli ultimi scontri politici, nel marzo del 2007, non avvennero fra manifestanti e polizia come qui, ma fra i due eserciti personali dei due leader della guerra, a colpi di cannonate in centro città: 700 soldati uccisi o dispersi in neanche tre giorni. Gli schieramenti politici congolesi seguono schemi rigorosamente etnici, marcati da divisioni di lingua e cultura oltre che di provenienza geografica. In alcuni casi c'erano storie recenti di sangue e atrocità fra i diversi popoli, e ci vorranno decenni per sanarle. Qui in Madagascar ci sono 18 tribù, ma parlano tutte più o meno la stessa lingua, sono spesso mischiate per via dell'immigrazione interna, bevono birra insieme, e sono trasversalmente attraversate dalla divisione politica fra i due attuali contendenti TIM e TGV. Insomma, per quanto ho potuto capire in questi pochi giorni, lo scontro avviene più che altro uno scontro fra gruppi di potere, coinvolgendo gli oligarchi e i loro entourages, giù giù fino ai funzionari locali, ma senza movimentare davvero le masse popolari, che guardano il tutto con un distaccato e cinico sarcasmo.

Non ho idea di come evolverà la crisi: ci sono molte notizie sinistre, e c'è un popolo all'apparenza gioviale e sereno che però ha dato anche prova di essere capace di slanci di inaspettata violenza. Di sicuro, comunque, c'è almeno che il contesto malgascio è completamente diverso rispetto a quelli che portarono alle guerre atroci degli ultimi 15 anni nell'Africa sub-sahariana. Per noi europei, che tendiamo a vedere l'Africa come un unico indistinto calderone, è già qualcosa di importante da imparare.

mercoledì 25 marzo 2009

10-3-09 – Madagascar

Per le strade di Tana

L'Airbus A340 è vuoto più o meno per due terzi dei suoi posti. La signora che mi sta di fianco, una consulente franco-cilena della Banca Mondiale che viene in Madagascar per un rapido incarico fra un missione in Kenya e una in Pakistan, si è spostata per stendersi su una intera fila centrale da quattro sedili, e così anch'io ho due sedili per allungarmi un po'. In queste settimane in cui in Madagascar c'è “crisi istituzionale” Air France ha riprogrammato il volo per Antananarivo per farlo arrivare alle due di pomeriggio, anziché all'una di notte, ed evitare così il coprifuoco. Già che c'erano, visto che i passeggeri sono comunque pochi, l'hanno accorpato col volo di linea per Mauritius, dove fanno uno scalo e il cambio di equipaggio, così che hostess e piloti si fermino lì anziché a Tana. Grazie a questa variazione, le dieci ore di volo dell'orario originale sono diventate quindici, ed ho tutto il tempo di mettermi finalmente al passo con le ultime uscite cinematografiche, grazie all'ottimo programma di intrattenimento a bordo.
All'arrivo in aeroporto l'accoglienza efficiente, cortese e sorridente è quella tipica dei luoghi di villeggiatura, giusto un po' fuori stagione vista l'abbondanza del personale in proporzione ai passeggeri.
All'uscita trovo ad aspettarmi due belle ragazze, con un cartello con su scritto “Sylvio / Ingenieurs Sans Frontieres”. Ci sono due errori in sole quattro parole, uno ortografico (la y per la i) e l'altro semantico (gli ingegneri per l'ingegneria). Entrambi sono abbastanza tipici, quindi decido di soprassedere. Le ragazze sono di una cooperativa di trasporti, e sono venute a prendermi insieme ad altri due uomini che ci aspettano in un pullmino: uno è l'autista, l'altro invece se ne sta seduto in fondo senza dire una parola.
Quella delle due che parla un po' meglio il francese mi chiede subito se sono informato sulla crisi politica malgascia. Certamente! Da qualche settimana ho seguito tutti i giorni il sito di Radio France Inter: ho letto della protesta lanciata da gennaio dal sindaco della capitale, Andry Rajoelina, contro il presidente della repubblica, Marc Ravalomanana. Ci sono state tutta una serie di manifestazioni di piazza, alla Place du 13 Mai di Antananarivo, in un paio di casi sedate in modo tragico dalla polizia, che ha fatto diverse decine di morti fra i manifestanti. Le manifestazioni e i disordini sembrano limitate alla capitale, a parte una sporadica manifestazione con due morti a Fianarantsoa della settimana precedente. Il dialogo fra i due sembra non aver sortito esiti finora, e quindi da quanto ho capito continua ad essere consigliabile stare alla larga dalle manifestazioni. A parte questo, la situazione del paese è pacifica.
La ragazza prosegue comunque commentando “vous avez été courageux a venir ici maintenant!”. Il complimento, tradotto e applicato alla mia persona, vuol dire che probabilmente devo preoccuparmi di più. In effetti la prima impressione che ho mentre attraversiamo il traffico cittadino è un po' diversa da quella che ero riuscito a farmi leggendo RFI: le “manifestazioni” in realtà spuntano di continuo. Di fatto, la città è in uno stato di mobilitazione permanente. In molte strade passiamo a zig-zag fra i resti di qualche barrage fatto con ogni mezzo a disposizione: file di pietre, pneumatici bruciati o cassoni pieni di sabbia. In una rotonda passiamo in mezzo a un gruppo di gente che si sta radunando, e la ragazza commenta “anche qui?” e mostra un po' di nervosismo. Mezzo chilometro dopo incrociamo due camion carichi di poliziotti in assetto da combattimento che passano di fretta lungo la strada.
La ragazza nel frattempo mi racconta che in questi ultimi due giorni la situazione si è fatta più calda, e che ieri notte mentre ero in volo è stato ammazzato un manifestante. Mi spiega aiutandosi coi gesti che i poliziotti l'hanno lasciato appeso in strada, per intimidire gli altri.(1)
Vorrei fare delle foto ma non so se è il caso, con i poliziotti in giro. Lo chiedo alla ragazza, che mi risponde che posso scattare tutte le foto che voglio, e anzi si mette a ridere per il fatto che mi sia posto uno scrupolo tanto buffo.
L'associazione con cui collaboriamo, vista la situazione, ha deciso che è meglio che non passi la notte ad Antananarivo come inizialmente previsto, e che vada subito a Fianarantsoa col taxi-brousse delle 18. Così vengo portato direttamente in stazione. Passo tre ore ad aspettare, leggiucchiando un po' nell'ufficio della cooperativa. Sono l'unico bianco in tutta la stazione, e quindi suscito una naturale curiosità. Un signore entra e mi apostrofa coloritamente in malgascio, con un tono che mi pare decisamente sarcastico. Le ragazze sghignazzano, non so se per lui, per me o per entrambi. Chiedo spiegazioni, e mi dicono che mi sta dicendo che devo parlare malgascio, visto che a lui se va in Francia gli tocca parlare francese. Gli spiego che in realtà sono italiano, e che anche io vivo la sua stessa sorte, poiché appena esco dal mio paese nessuno capisce più la mia lingua. Comunque gli prometto che in due settimane farò del mio meglio per imparare un po' di malgascio. Lo scambio interculturale finisce fra le risate generali.

Il taxi-brousse alle sei meno un quarto è già pieno, e quindi si parte con un po' di anticipo. E' un pullmino Mazda in condizioni più che dignitose, con tutti i suoi sedili originali al loro posto, e quando lo vedo tiro un sospiro di sollievo. Il viaggio sarà lungo, e il ricordo dei taxi-bus di Kinshasa mi spaventava un po'. L'associazione m'ha addirittura prenotato due posti per farmi stare più comodo, e gli altri passeggeri mi guardano per questo con un'aria un po' seccata. La cosa mi imbarazza un po', e così mi piazzo all'angolo della fila, occupandone solo uno. Il passeggero alla mia destra s'allarga quasi subito ad occupare anche il mio secondo posto, e ci dormirà rannicchiato per quasi tutto il viaggio.

Ci vogliono circa dieci ore per coprire i 400 km che separano Fianarantsoa da Antananarivo. Viaggiamo di notte ma comunque c'è un discreto traffico, tutti i taxi-brousse che fanno collegamenti notturni viaggiano normalmente anche in questo periodo. Il “coprifuoco” consiste di fatto nell'obbligo di girare con i documenti se si esce di notte, ovvero quello che a Kinshasa dovevamo fare anche di giorno in periodi non di crisi. Una volta usciti dalla regione della capitale, nel tratto di strada poco popolato fra Antsirabé e Ambositra, ci accodiamo a una fila di sette o otto taxi-brousse, e si va avanti in carovana per buona parte del tragitto, per motivi di sicurezza e solidarietà contro briganti, rapine o anche semplici contrattempi meccanici. Ogni volta che ci fermiamo mi sveglio, come per un riflesso condizionato. Lungo tutto il tragitto conto sei posti di blocco dell'esercito, tutti consistenti in un rapido e burocratico controllo dei documenti dell'autista, e un'occhiata veloce con una torcia ai passeggeri, senza che i militari chiedano mai soldi, o battano ciglio per la presenza di un bianco. La settimana scorsa Massimiliano, lungo lo stesso tragitto, era stato fermo più di un'ora a un blocco in cui i militari avevano estorto dei soldi, ma a quanto pare sono comunque fenomeni sporadici.

Arriviamo a Fianarantsoa alle 4 e mezza di mattina, dopo quasi 36 ore dalla mia partenza da Roma. Siamo un po' in anticipo sull'orario previsto, e Delphin, il responsabile dell'associazione, non è ancora arrivato in stazione. Lo chiamo, e arriva dopo una ventina di minuti, a piedi (a quell'ora non ci sono taxi sotto casa sua). Dalla stazione prendiamo un taxi, una vecchia Renault 4 che mi ricorda la mia infanzia, e ce ne andiamo a casa.

(1) Nei giorni successivi, a Fianarantsoa, non ho trovato nessuna conferma di questa notizia. Nessuno la trovava inverosimile, ma nessuno ne sapeva nulla. Non so se si è trattato effettivamente di un atto violento passato sotto silenzio, o semplicemente di una delle tante leggende metropolitane e voci ansiogene che circolavano nel paese.

venerdì 31 agosto 2007

Dieci anni

I bambini di Saint Hilaire

Quando la guerra civile arrivò a Kinshasa, nel 1997, le zone più combattute della città erano quelle vicine alle principali arterie di comunicazione. Una è la strada che viene dal Bas Congo, ed entra in città da Mont Ngafula. Un'altra è la strada che arriva dal Bandundu, costeggia l'aeroporto di Ndjili, e poi all'ingresso della città diventa Boulevard Lumumba, lo stradone spartiacque fra i quartieri di Kingasani e Masina.
I congolesi non parlano spesso di quegli anni. I missionari invece li raccontano con un'ammirevole serenità, malgrado tutto. Padre Stefano ci ha raccontato sorridendo di quando a Mont Ngafula uscì in strada e si mise in mezzo fra l'esercito di Kabila e quello di Mobutu, facendo da interprete fra i Banyamulenge (i Tutsi congolesi) di Kabila che parlavano Swahili e i soldati di Mobutu, per lo più dei Bandala, che parlavano Lingala. Cercava di ottenere una tregua, ma non è andata benissimo, e racconta senza perdere serenità anche di come è scappato a gambe levate, e della paura cieca di quegli attimi.
“Non sono come i militari romantici dei film o dei romanzi, questi non hanno nessuna morale”, dice Padre Santino. Ci racconta della facilità con cui uccidevano i civili, degli stupri, della suora Anuarité morta nel nord del Congo per aver rifiutato di concedersi a un soldato. I bambini-soldato, poi, erano anche più spietati degli adulti, “per loro uccidere è un gioco”.
Racconta sempre con leggerezza, correndo veloce sui singoli argomenti, “ché se ti metti a ripensarci poi ti prende la paura”.
Per la gente del nostro quartiere quelli sono stati anni di angoscia. Durante la seconda guerra i soldati dell'esercito di Kabila, che nel frattempo aveva preso il potere, venivano nelle parcelles a cercare i “rwandesi”, che poi voleva dire identificare chiunque avesse tratti somatici vicini a quelli rwandesi. Gli sfortunati che avevano dei lineamenti sospetti si ritrovavano con un pneumatico imbevuto di benzina infilato intorno alla vita, come una cintura, e finivano bruciati vivi, in strada.
Quelle stesse strade oggi sono piene di bambini. Quando piove è una festa, escono tutti a piedi nudi a giocare nelle pozzanghere o sotto gli scrosci d'acqua, rischiando ogni volta di rimanere fulminati su qualche cavo elettrico mal sotterrato. Scene che raccontano un quartiere che è ancora molto lontano da una qualità della vita dignitosa, almeno secondo le nostre concezioni, ma che è ben lontano anche dalla paura che doveva vivere alcuni anni fa.
Cerco di immaginare come dev'essere stata l'infanzia di quelli che oggi hanno diciotto anni. Sono gli stessi che spesso in strada ti guardano con aria diffidente, lanciando occhiate di sfida che trasudano una voglia insoddisfatta di rivincita nei confronti di quelli che identificano facilmente come ricchi e potenti.
La parola mundele, quando sono loro a usarla, assume tutta la sua forza dispregiativa. Un razzismo di ritorno che, ironicamente, si sprigiona proprio in una parola che è nata dalla storpiatura di “model”, espressione di sudditanza con cui i congolesi chiamavano i colonizzatori belgi.
Mi chiedo come mi comporterei al posto loro, se fossi nato congolese e cresciuto a Kingasani negli anni novanta, fra i pillages del mobutismo in declino e le guerre che si sono succedute in seguito. Come sarei stato se avessi visto quello che hanno visto loro? Cosa avrei provato nei confronti dei bianchi, dei potenti, di quelli che hanno tutte le possibilità e sfruttano le risorse del Congo per portare ricchezza all'estero, di quelli che quando la situazione si fa difficile possono prendere un aereo e andarsene? C'è da rimanere stupefatti, in fondo, a pensare a quella gran parte di ventenni che ci accolgono con amichevolezza e allegria appena ci conoscono.
Quando uno arriva in questi luoghi all'inizio è sopraffatto dagli odori, dai paesaggi urbani spesso disperanti, dagli atteggiamenti più superficiali dell'umanità varia e densissima che ti si presenta davanti.
Più mi sforzo di andare al di là di questo primo velo, cercando di vedere queste strade in una prospettiva di qualche anno, e più mi sembra finalmente di intravvedere anche un bicchiere mezzo pieno, dietro all'apparenza di questo paese a prima vista senza via d'uscita, avvinghiato sull'immobilismo dei suoi mali endemici che, sfortunatamente per i congolesi, si sposano troppo bene con gli interessi dei paesi ricchi.
Comincio a capire l'allegria di questa gente che, cresciuta in una perenne mancanza di serenità e di pace, ha da poco ritrovato almeno la speranza e stabilità, che ne sono già un primo e fondamentale surrogato.

“Non vi scoraggiate”. Mi tornano alla mente queste parole, belle e del tutto inattese, che due anni fa mi sentii dire da una ragazza-poliziotto, dopo che il suo capo ci aveva appena fatto passare un brutto quarto d'ora. Sono le stesse parole che Marco, senza saperlo, ha ripetuto ai ragazzi che gestiranno il nostro centro a Kingasani. Un incoraggiamento che abbiamo sostenuto anche noi, e che va al di là del risolvere i problemi con un disco fisso o con un'installazione, visto che l'entusiasmo, il senso di appartenere a una comunità e la voglia di sacrificarsi per costruire qualcosa saranno necessari in ogni aspetto del loro impegno.
I segni positivi ci sono tutti, ma c'è anche la consapevolezza che i segni qui sono sempre precari e temporanei, e che la speranza può presto diventare disillusione, in un paese stremato che si attende molto da questo nuovo regime. Distruggere è sempre più facile che costruire, e basta poco per mandare in fumo i progetti e i sacrifici di molti, e tornare indietro, nel baratro dell'ognun per sé.
A volte, partendo da queste considerazioni spicciole, mi prendeva un po' di sfiducia sulla reale portata di un progetto di cooperazione come il nostro, in un posto in cui basta una decisione storta presa da un potente in occidente per mandare all'aria quello che s'è costruito con fatica in mille progetti. Ne parlavo con Marco, una mattina, tornando da Gombe in uno dei nostri viaggi, e i suoi racconti m'hanno fatto riflettere.
Ritorno da Kinshasa con un po' di fiducia in più. In un paese dove la la voglia di ricostruire si regge su un filo precario, il nostro minuscolo progetto di cooperazione, realizzato dove non c'era nulla, ora mi sembra qualcosa di significativo, non solo per il progetto in sé, ma anche semplicemente per aver portato un'esperienza di cooperazione in più in un contesto in cui non ce n'erano molte, e aver dimostrato che costruire qualcosa insieme è possibile.

domenica 26 agosto 2007

Fuochi d'artificio (forse)

Stamattina Debora e Ange, la ragazza che ci prepara le colazioni, parlavano dei rumori che si sentivano ieri dopo la mezzanotte, in lontananza. Secondo loro erano armi da fuoco. Dicono che capiti ogni tanto che la polizia becchi qualche ladruncolo di notte, e si metta a sparare in aria. Nel nostro quartiere è successo anche qualche settimana prima del nostro arrivo.
Stavolta però dicono che i rumori somigliassero più a dei colpi di cannone, simili a quelli del 22 e 23 marzo, e questo non le ha fatte dormire troppo tranquille. Abbiamo controllato, ma in città non è successo proprio nulla. Forse era qualche esercitazione nella zona dell'aeroporto.
Io dormivo, e non ho sentito nulla; la spiegazione più probabile, secondo me, è che fossero dei fuochi d'artificio di qualche concerto alla FIKIN, la storica fiera internazionale che alla sera diventa il centro della scatenata movida kinoise (almeno stando ai racconti di chi ci è stato).
Stamattina, mentre facevamo questi discorsi, s'è alzato il vento e il cielo s'è annerato. Abbiamo dovuto accendere la luce, sembrava che fosse di nuovo calata la notte. E poi è arrivato un nuovo scroscio d'acqua, il terzo da quando siamo qua. Ange dice che è già arrivata la stagione delle piogge (con più di un mese d'anticipo!), mentre Padre Santino dice che non è possibile, si tratta solo di un paio di piogge in più rispetto alla pioggia di mezzo che di solito bagna la stagione secca, causate da un clima un po' più pazzerello del solito.
Non ci sono più le stagioni secche di una volta.

mercoledì 22 agosto 2007

L'aula è pronta!

Missione compiuta
Le gros professeur

Al primo giorno di lavoro, al centro, abbiamo cominciato incontrando e conoscendo il gruppetto di ragazzi del quartiere (otto ragazzi e una ragazza, per la precisione) che poi ci hanno seguito durante tutto il lavoro di installazione, e che formano la platea da cui saranno scelti i formatori e i gestori del centro.
Le presentazioni formali non sono esattamente il mio forte; in Congo, poi, i momenti formali riescono a raggiungere livelli di ampollosità da accademia ottocentesca. E così, quando è stato il mio turno e ho dovuto presentare ai ragazzi il nostro ruolo nel progetto e spiegare la nostra presenza, ho cercato di essere il più schietto e pragmatico possibile, anche a rischio di apparire un po' scorbutico.
Ho cercato di raccontargli qualcosa innanzitutto della parte italiana del progetto, di come è stata tirata avanti con le energie e il tempo libero di studenti e lavoratori volontari, di quante associazioni e persone si sono impegnate al di là di noi tre che siamo venuti quaggiù, della fatica e del sacrificio che ci sono voluti per arrivare fin qua con quei dieci scatolozzi, sparsi in vari bagagli. Forse non è il massimo della cortesia introdursi in questo modo, ma credo che ci portiamo dietro un dovere di testimonianza che è più importante della cortesia.
I computer del centro non sono un regalo magnanimo di qualche mundele che se lo poteva permettere; sono un contributo allo sviluppo, fatto da ragazzi e ragazze che faticano, studiano e lavorano come loro, seppure in condizioni e contesti completamente diversi. Questa considerazione può sembrare banale dall'Italia, ma qui non lo è affatto. I ragazzi di Kingasani non sono mai stati in Europa, tranne qualche rara eccezione, e ne hanno un'idea del tutto fumosa, un po' come l'idea del Congo che si può avere dall'Italia senza averlo mai visto davvero. Qui capita spesso che un ragazzo che t'ha appena conosciuto ti chieda se gli regali la macchina fotografica o il telefono: lo fa senza nessuna cattiveria o malizia, semplicemente perché non ha idea di quanto valgono per un europeo quegli oggetti, se deve lavorare anche lui per comprarseli, o se invece se ne compra uno al giorno. Sanno che noi abbiamo delle possibilità che sono qualche ordine di grandezza maggiori delle loro, e quindi sono difficili anche da valutare.
L'essere costantemente trattato come un salvadanaio che cammina, prima che come persona, è un atteggiamento che crea inevitabilmente distanza e separazione, due piani distinti con due livelli di dignità diversi: è qualcosa di veramente dannoso in un ambito di cooperazione, oltre che di faticoso da vivere per chi ci si trova. Ho cercato sin dall'inizio, per quanto m'era possibile, di evitare situazioni del genere, testimoniare che siamo su due lati della stessa barca, far sentire ai ragazzi che il centro è il loro prima che il nostro, che abbiamo pari dignità e quindi dobbiamo sentire pari responsabilità.
Certo sarebbe ipocrita, e ingiusto, pensare di far svanire con la sola nostra presenza i retaggi di decenni di colonialismo; un mundele qui, oltre a un salvadanaio che cammina, è anche un racconto involontario e spesso inconsapevole di un pezzo di storia, di una brutta storia. E con questo dobbiamo farci i conti. Gli sguardi di diffidenza, a volte di sfida, che capita di ricevere camminando per strada sono comprensibili alla luce della storia degli europei in questo paese: dobbiamo prenderceli, e provare a correggerli un pezzetto alla volta, portando una testimonianza di un'Europa diversa, e cercando a casa nostra di rendere anche l'Europa di oggi diversa da quello che è.
Per fare insieme un progetto di cooperazione però è importante che con le persone con cui lavoriamo si superino queste barriere, e si stabiliscano dei rapporti personali, di fiducia e condivisione di responsabilità. Speriamo di esserci riusciti.
A giudicare dall'atteggiamento e dalla serietà con cui tutti i ragazzi hanno affrontato l'impegno in questi giorni credo che siamo se non altro partiti col piede giusto.

Abbiamo cominciato con l'installare e ricontrollare tutto l'hardware, e poi proseguito con l'installazione dei sistemi operativi. Su tutti i PC abbiamo messo sia Windows che Ubuntu, cercando di diffondere il software libero e tutti i suoi significati non solo tecnici, e al tempo stesso rendere comunque il centro immediatamente appetibile ed utilizzabile in un paese in cui nessuno, ancora, ha mai sentito parlare di Linux.
Abbiamo alternato lo smanettamento sui computer a delle lunghe lezioni teoriche alla lavagna, condensando in pochi pomeriggi diversi mesi di corsi universitari. E in ogni fase eravamo sempre accompagnati da un costante sottofondo musicale, piuttosto caratteristico, che mescola i ritmi congolesi della musica trasmessa dal bar del vicinato, i canti della corale che faceva le prove in chiesa, e i pianti dei bambini della parcelle accanto alla nostra. Un impeccabile riassunto sonoro dello spirito del quartiere.
Anche le interruzioni di corrente, capitate in media un giorno ogni due, sono sempre accompagnate da un buffo sottofondo sonoro: un grido “eeehhh” corale di tutti i bambini del circondario, che festeggiano l'evento (sia quando va via, sia quando torna). Ci aiutano inconsapevolmente, nel loro stile, a segnalarci quando dobbiamo attaccare il router alla batteria, e quando invece possiamo staccarlo.
L'altro ieri abbiamo finalmente terminato i lavori di installazione, connettendo il cavo che collega l'aula ad Internet: centoquaranta metri di connessione Ethernet interrata, su due tratte connesse tramite un piccolo switch che fa da ponte, per arrivare dall'altra parte della strada, dove abbiamo l'antenna wireless che ci connette al provider di Kinshasa.
Dopo mezza giornata passata a tirare cavi e controllare crimpaggi, la risposta al ping che si stampava sullo schermo m'è sembrata più bella di una poesia.
Ora l'aula è pronta; non resta che fare pulizia, terminare la formazione, e poi avremo completato la nostra parte, e si dovrà solo aprire il centro e farlo funzionare e vivere... il meno è fatto!

giovedì 16 agosto 2007

Solidarietà fotografica

Il Presidente
Scattare foto in Repubblica Democratica del Congo è ancora un gesto da fare con circospezione. Continua ad essere in vigore una vecchia legge che impedisce di fare foto in luoghi pubblici, anche se in teoria questa norma non è più compatibile con la nuova costituzione; per i poliziotti quindi una macchina fotografica sguainata rappresenta una violazione della legge, e un ottimo appiglio per intimidire qualche malcapitato e farsi dare un po' di soldi. Se riescono a sequestrare la macchina poi la tariffa aumenta: conoscono bene il valore di una digitale, e per farsela ridare ci vogliono anche trenta o quaranta dollari, ovviamente rimettendoci la scheda di memoria con le foto sequestrate.
La tecnica migliore, se proprio uno vuole fare qualche foto in una zona controllata, è individuare il capo dei poliziotti e pagare prima di cominciare a scattare. Oppure fare foto dall'auto in corsa, quando davanti c'è strada libera. Oppure, ancora meglio, tenere la macchina spenta in tasca e lasciar stare le foto.
Questo è quello che si apprende da “turista” a Kinshasa.
La situazione di chi da queste parti fa il giornalista o il reporter è invece un po' più complicata. Oggi mentre passavamo in macchina sul Boulevard du 30 Juin a Gombe abbiamo incontrato una manifestazione di fotografi e giornalisti, che bloccavano civilmente buona parte del viale nel senso di marcia opposto al nostro. Saranno stati qualche centinaio al massimo, marciavano tutti con la macchina fotografica appesa al collo, e degli striscioni che chiedevano l'impegno del governo perché cessi l'uso delle armi contro i fotografi, e si puniscano gli omicidi.
Io avevo la mia macchina in tasca e avrei tanto voluto scattargli una foto di solidarietà, poi ho dato un'occhiata al numero di poliziotti in giro, e al traffico bloccato che avevamo davanti, e ho pensato che bastava il pensiero.
Padre Santino questa sera ci diceva “eh si, ultimamente ne hanno ammazzati due”. Non lo sapevo, ma in effetti è vero: nel Kivu, la regione orientale del Congo dove ci sono ancora aree non pacificate, i giornalisti sono tuttora vittime di esecuzioni pianificate, che il governo a quanto pare non riesce né a evitare né a punire e reprimere.
http://www.rsf.org/article.php3?id_article=23252

Oggi al ritorno siamo ripassati sul viale, in senso opposto, dopo una mezz'ora da quando avevamo incrociato la manifestazione. Ci aspettavamo di trovare coda, e invece il traffico era scorrevole: un nutrito cordone di poliziotti aveva bloccato la manifestazione e spinto tutti i fotografi sul marciapiede, il corteo era già finito.

mercoledì 15 agosto 2007

Da Kingasani a Gombe

Al mercato
Taxi express
When we were kings
Gombe
Fra la missione dove alloggiamo e la Gombe, il centro di Kinshasa, ci sono venticinque chilometri di strade e umanità varia. Il viaggio richiede più di un'ora di tempo, e un po' di buona volontà.
Si parte dalla missione, in una zona interna del quartiere Kingasani. Le strade qui sono degli stretti vicoli sabbiosi, dove si arriva solo con dei fuoristrada. Non ci sono taxi-bustaxi-express che arrivano fin qua, né tantomeno auto private, a parte il fuoristrada della nostra parrocchia, o qualche sporadica jeep di qualcuno che viene da altri quartieri. La densità di catapecchie stipate di persone è fra le più alte che ho visto a Kinshasa.
La strada asfaltata più vicina è il Boulevard Lumumba, ovvero lo stradone che connette l'aeroporto di Ndjili con la città: distra tre chilometri dalla missione, ed è anche il punto più vicino in cui si può prendere un taxi.
Per uno dei nostri viaggi in ville ci arriviamo a piedi, accompagnati da Blaise, un ragazzo della parrocchia, che ci fa da guida. Attraversiamo il quartiere a passeggio, ed è davvero impossibile passare inosservati. I bambini ci corrono incontro tutto il tempo, fanno una gran festa, ci battono il cinque e poi si guardano la mano per vedere se s'è sbiancata. Ci chiamano “Santino” finché siamo nella zona della parrocchia, o semplicemente mundele quando oltrepassiamo il confine parrocchiale. Samuele viene spesso apostrofato anche come “Jesus”, nell'ilarità generale. Fra i più grandi invece ci sono anche quelli che ci guardano con aria di sfida, in modo non particolarmente amichevole. Cerco di rispondere a tutti con sorrisi pacifici, non c'è molto altro che si possa fare.
Si cammina guardando per terra: la sabbia è piena di immondizia, ed è meglio fare attenzione a dove si mettono i piedi. Di tanto in tanto l'immondizia è smaltita in qualche falò che appesta l'aria.
Poco prima del Boulevard costeggiamo l'ospedale delle Poverelle di Bergamo: è una struttura molto estesa, costruita prima che il quartiere le crescesse tutto intorno. Copre tutte le necessità sanitarie di una zona di ottocentomila abitanti, e il solo reparto maternità fa venticinque parti al giorno. Il tutto gestito con tre medici part-time (ognuno è in ospedale tre giorni a settimana), delle infermiere tuttofare, e parecchia arte di arrangiarsi.
Giunti al Boulevard ci fermiamo all'angolo della strada, mentre Blaise va a cercare un taxi. Lo mandiamo da solo a negoziare, così che l'autista non veda che ci sono anche tre mundele, altrimenti il prezzo salirebbe sicuramente. Ritorna dieci minuti dopo, con un taxi mediamente scassato: una vecchia Mazda con parabrezza rotto e carrozzeria acciaccata. Sul cruscotto i soliti adesivi “Rispetta il conducente perché conduce la tua anima” e “Dio è la mia forza”, più un altro adesivo che invece non avevo ancora visto, che recita “La vita è dura, l'uomo deve battersi”. Il parco auto, anche guardandosi intorno, mi sembra non essere cambiato di una virgola in questi due anni. Gli stessi vecchi furgoncini Volkswagen e Ford a fare da taxi-bus, con gli oblò sui fianchi ritagliati col frullino e i panchetti di legno sistemati ad una densità disumana. Gli stessi vecchi camion appesta-aria, carichi di sacchi di farina mista a persone, e le stesse macchine scassate a fare servizio di taxi-express. L'evoluzione più notevole, che salta subito all'occhio, è un inizio di applicazione del codice della strada: non ci sono più persone fuori dai furgoncini e dai camion, nelle auto non si può andare in più di cinque persone, sui sedili anteriori bisogna indossare le cinture (nel nosro taxi sono rotte, il conducente le ha rimesse su con un nodo, ma comunque ci sono), e sparsi in giro per la città ci sono addirittura una manciata di semafori, tutti funzionanti (anche se non so cosa succede quando va via la corrente).
Prendiamo il boulevard in direzione centro, ed arriviamo alla fine del viale, dove c'è una grande rotonda con al centro il monumento a Lumumba, e dove inizia la parte più centrale della città. Due anni fa quella rotonda era un'immensa discarica/inceneritore a cielo aperto, e mi ricordo che proprio in quel punto Ngindu mi disse “benvenuto a Kinshasa”. Ora non c'è più immondizia, un altro segno degli sforzi governativi per mettere ordine.
Certo, questo è uno sforzo più di facciata che di sostanza: la raccolta dell'immondizia in città non c'è ancora, e i rifiuti che non sono qua finiscono evidentemente da qualche altra parte non troppo lontano. Però almeno il povero Patrice può avere un po' di decoro intorno al suo monumento.
Continuiamo attraversando la zona di Avenue de l'Université, dove si trovava il nostro vecchio centro, e proseguiamo costeggiando lo stadio, un'immensa costruzione che sembra un'astronave calata lì in mezzo per sbaglio. Fu qua (o meglio nel vecchio stadio, che è di fianco) che Mohammed Alì si riprese il titolo da George Foreman, in quello storico match in cui una folla di congolesi (all'epoca si chiamavano zairesi) faceva il tifo per lui gridando in lingala “Alì buma ye”.
Proseguiamo oltre lo stadio verso il centro della Gombe, costeggiando l'Assemblée Nationale (il parlamento), e poi il Centro Nazionale d'Igiene, o meglio quel che ne resta. Era uno degli edifici più belli ed efficienti della città, lascito della colonizzazione belga. Ricordo che Ngindu ci raccontava di quando da ragazzo andò lì a vaccinarsi prima di partire per l'Italia. Negli anni 90 poi fu semidistrutto dalla folla inferocita durante uno dei pillages, ed ora resta un imponente rudere annerito, occupato da una folla di senzatetto.
Arriviamo all'Institut Superieur du Commerce, dove andiamo a trovare Ngindu, e poi ci dirigiamo verso il Boulevard du 30 Juin, il viale centrale della Gombe, dove si trovano tutti gli edifici e le ambasciate più importanti.
Quella della Spagna porta ancora qualche segno delle cannonate del marzo scorso, quando fu colpita inavvertitamente dall'artiglieria pesante dell'esercito governativo che stava cercando di abbattere un cecchino dei miliziani di Bemba, il capo dell'opposizione sconfitto alle elezioni dell'autunno scorso. Marco ci racconta della tensione di quei giorni, quando l'aeroporto era chiuso, e il rumore dei colpi di cannone alla Gombe si sentiva fino a Kingasani.
Si dice che Bemba avesse un esercito di seicento miliziani, di cui trecento sono stati uccisi in quei giorni dall'esercito governativo, mentre gli altri sono dispersi. Da allora a Kinshasa non s'è più sparato, e la situazione politica sembra finalmente stabile.
Ed in effetti, almeno in superficie, sono diversi i segnali che fanno pensare ad una città più distesa rispetto a quella che ricordavo: i caschi blu non vanno più di vedetta con i carri armati, al massimo li si incontra su dei normali pick-up. Davanti alla sede della MONUC non ci sono più le barricate di sacchetti di sabbia, sono rimaste solo quelle di filo spinato. Ci sono molti più poliziotti in giro rispetto a due anni fa, ma finora nessuno di loro, fuori dall'aeroporto, ha mai provato a fermarci per spillarci dei soldi. Uno sul boulevard m'ha schernito chiamandomi ciccione in lingala (almeno stando alla traduzione di Blaise), ma anche lui poi è passato di lungo. In altri tempi ci avrebbe come minimo chiesto i documenti, e avrebbe cominciato a questionare su ogni appiglio.
Al mercato di souvenir e oggetti d'arte in fondo a Boulevard du 30 Juin ci siamo arrivati verso ora di pranzo, e non c'era quasi nessun cliente fra i banchi, a parte noi e un casco blu russo in libera uscita. Eppure quasi nessuno dei venditori cercava di attirare la nostra attenzione, o almeno nessuno mostrava l'insistenza famelica che ricordavo, segno che forse si vede qualche soldo in più in giro.
Sono solo segnali superficiali, in un paese in cui le condizioni di vita delle persone in due anni non si sono praticamente mosse, eppure il fatto che dei piccoli cambiamenti si notino mi sembra già qualcosa di insperato, che vale la pena rimarcare.