Fra la missione dove alloggiamo e la Gombe, il centro di Kinshasa, ci sono venticinque chilometri di strade e umanità varia. Il viaggio richiede più di un'ora di tempo, e un po' di buona volontà.
Si parte dalla missione, in una zona interna del quartiere Kingasani. Le strade qui sono degli stretti vicoli sabbiosi, dove si arriva solo con dei fuoristrada. Non ci sono taxi-bus né taxi-express che arrivano fin qua, né tantomeno auto private, a parte il fuoristrada della nostra parrocchia, o qualche sporadica jeep di qualcuno che viene da altri quartieri. La densità di catapecchie stipate di persone è fra le più alte che ho visto a Kinshasa.
La strada asfaltata più vicina è il Boulevard Lumumba, ovvero lo stradone che connette l'aeroporto di Ndjili con la città: distra tre chilometri dalla missione, ed è anche il punto più vicino in cui si può prendere un taxi.
Per uno dei nostri viaggi in ville ci arriviamo a piedi, accompagnati da Blaise, un ragazzo della parrocchia, che ci fa da guida. Attraversiamo il quartiere a passeggio, ed è davvero impossibile passare inosservati. I bambini ci corrono incontro tutto il tempo, fanno una gran festa, ci battono il cinque e poi si guardano la mano per vedere se s'è sbiancata. Ci chiamano “Santino” finché siamo nella zona della parrocchia, o semplicemente mundele quando oltrepassiamo il confine parrocchiale. Samuele viene spesso apostrofato anche come “Jesus”, nell'ilarità generale. Fra i più grandi invece ci sono anche quelli che ci guardano con aria di sfida, in modo non particolarmente amichevole. Cerco di rispondere a tutti con sorrisi pacifici, non c'è molto altro che si possa fare.
Si cammina guardando per terra: la sabbia è piena di immondizia, ed è meglio fare attenzione a dove si mettono i piedi. Di tanto in tanto l'immondizia è smaltita in qualche falò che appesta l'aria.
Poco prima del Boulevard costeggiamo l'ospedale delle Poverelle di Bergamo: è una struttura molto estesa, costruita prima che il quartiere le crescesse tutto intorno. Copre tutte le necessità sanitarie di una zona di ottocentomila abitanti, e il solo reparto maternità fa venticinque parti al giorno. Il tutto gestito con tre medici part-time (ognuno è in ospedale tre giorni a settimana), delle infermiere tuttofare, e parecchia arte di arrangiarsi.
Giunti al Boulevard ci fermiamo all'angolo della strada, mentre Blaise va a cercare un taxi. Lo mandiamo da solo a negoziare, così che l'autista non veda che ci sono anche tre mundele, altrimenti il prezzo salirebbe sicuramente. Ritorna dieci minuti dopo, con un taxi mediamente scassato: una vecchia Mazda con parabrezza rotto e carrozzeria acciaccata. Sul cruscotto i soliti adesivi “Rispetta il conducente perché conduce la tua anima” e “Dio è la mia forza”, più un altro adesivo che invece non avevo ancora visto, che recita “La vita è dura, l'uomo deve battersi”. Il parco auto, anche guardandosi intorno, mi sembra non essere cambiato di una virgola in questi due anni. Gli stessi vecchi furgoncini Volkswagen e Ford a fare da taxi-bus, con gli oblò sui fianchi ritagliati col frullino e i panchetti di legno sistemati ad una densità disumana. Gli stessi vecchi camion appesta-aria, carichi di sacchi di farina mista a persone, e le stesse macchine scassate a fare servizio di taxi-express. L'evoluzione più notevole, che salta subito all'occhio, è un inizio di applicazione del codice della strada: non ci sono più persone fuori dai furgoncini e dai camion, nelle auto non si può andare in più di cinque persone, sui sedili anteriori bisogna indossare le cinture (nel nosro taxi sono rotte, il conducente le ha rimesse su con un nodo, ma comunque ci sono), e sparsi in giro per la città ci sono addirittura una manciata di semafori, tutti funzionanti (anche se non so cosa succede quando va via la corrente).
Prendiamo il boulevard in direzione centro, ed arriviamo alla fine del viale, dove c'è una grande rotonda con al centro il monumento a Lumumba, e dove inizia la parte più centrale della città. Due anni fa quella rotonda era un'immensa discarica/inceneritore a cielo aperto, e mi ricordo che proprio in quel punto Ngindu mi disse “benvenuto a Kinshasa”. Ora non c'è più immondizia, un altro segno degli sforzi governativi per mettere ordine.
Certo, questo è uno sforzo più di facciata che di sostanza: la raccolta dell'immondizia in città non c'è ancora, e i rifiuti che non sono qua finiscono evidentemente da qualche altra parte non troppo lontano. Però almeno il povero Patrice può avere un po' di decoro intorno al suo monumento.
Continuiamo attraversando la zona di Avenue de l'Université, dove si trovava il nostro vecchio centro, e proseguiamo costeggiando lo stadio, un'immensa costruzione che sembra un'astronave calata lì in mezzo per sbaglio. Fu qua (o meglio nel vecchio stadio, che è di fianco) che Mohammed Alì si riprese il titolo da George Foreman, in quello storico match in cui una folla di congolesi (all'epoca si chiamavano zairesi) faceva il tifo per lui gridando in lingala “Alì buma ye”.
Proseguiamo oltre lo stadio verso il centro della Gombe, costeggiando l'Assemblée Nationale (il parlamento), e poi il Centro Nazionale d'Igiene, o meglio quel che ne resta. Era uno degli edifici più belli ed efficienti della città, lascito della colonizzazione belga. Ricordo che Ngindu ci raccontava di quando da ragazzo andò lì a vaccinarsi prima di partire per l'Italia. Negli anni 90 poi fu semidistrutto dalla folla inferocita durante uno dei pillages, ed ora resta un imponente rudere annerito, occupato da una folla di senzatetto.
Arriviamo all'Institut Superieur du Commerce, dove andiamo a trovare Ngindu, e poi ci dirigiamo verso il Boulevard du 30 Juin, il viale centrale della Gombe, dove si trovano tutti gli edifici e le ambasciate più importanti.
Quella della Spagna porta ancora qualche segno delle cannonate del marzo scorso, quando fu colpita inavvertitamente dall'artiglieria pesante dell'esercito governativo che stava cercando di abbattere un cecchino dei miliziani di Bemba, il capo dell'opposizione sconfitto alle elezioni dell'autunno scorso. Marco ci racconta della tensione di quei giorni, quando l'aeroporto era chiuso, e il rumore dei colpi di cannone alla Gombe si sentiva fino a Kingasani.
Si dice che Bemba avesse un esercito di seicento miliziani, di cui trecento sono stati uccisi in quei giorni dall'esercito governativo, mentre gli altri sono dispersi. Da allora a Kinshasa non s'è più sparato, e la situazione politica sembra finalmente stabile.
Ed in effetti, almeno in superficie, sono diversi i segnali che fanno pensare ad una città più distesa rispetto a quella che ricordavo: i caschi blu non vanno più di vedetta con i carri armati, al massimo li si incontra su dei normali pick-up. Davanti alla sede della MONUC non ci sono più le barricate di sacchetti di sabbia, sono rimaste solo quelle di filo spinato. Ci sono molti più poliziotti in giro rispetto a due anni fa, ma finora nessuno di loro, fuori dall'aeroporto, ha mai provato a fermarci per spillarci dei soldi. Uno sul boulevard m'ha schernito chiamandomi ciccione in lingala (almeno stando alla traduzione di Blaise), ma anche lui poi è passato di lungo. In altri tempi ci avrebbe come minimo chiesto i documenti, e avrebbe cominciato a questionare su ogni appiglio.
Al mercato di souvenir e oggetti d'arte in fondo a Boulevard du 30 Juin ci siamo arrivati verso ora di pranzo, e non c'era quasi nessun cliente fra i banchi, a parte noi e un casco blu russo in libera uscita. Eppure quasi nessuno dei venditori cercava di attirare la nostra attenzione, o almeno nessuno mostrava l'insistenza famelica che ricordavo, segno che forse si vede qualche soldo in più in giro.
Sono solo segnali superficiali, in un paese in cui le condizioni di vita delle persone in due anni non si sono praticamente mosse, eppure il fatto che dei piccoli cambiamenti si notino mi sembra già qualcosa di insperato, che vale la pena rimarcare.
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