Così molti paesi dell'Africa vivono già la seconda tappa della loro breve storia, iniziata dopo la guerra. La prima tappa sono state la decolonizzazione accelerata e la conquista dell'indipendenza, avvenute in un clima di ottimismo, di entusiasmo e di generale euforia. La gente era convinta che la libertà si sarebbe tradotta in un tetto più solido sulla testa, in una scodella di riso più abbondante, nel primo paio di scarpe della sua vita. Che si sarebbe verificato il miracolo della moltiplicazione dei pani, dei pesci e del vino. Viceversa non accadde niente del genere, anzi ci fu un esorbitante afflusso di popolazione nelle città per cui presto mancarono cibo, scuole e lavoro. L'ottimismo lasciò il posto alla delusione e al pessimismo.
Tutta l'amarezza, la rabbia e l'odio si riversarono sulle élite, la cui principale occupazione era quella di arricchirsi velocemente. In un paese privo di grande industria privata, dove le piantagioni appartengono agli stranieri e le banche al capitale estero, l'unico mezzo per fare fortuna è la carriera politica.
La miseria delle classi più basse da una parte e l'avidità e l'ingordigia di quelle alte dall'altra finiscono per creare un'atmosfera tesa e avvelenata che non sfugge all'esercito. Indossati i panni dei difensori dei deboli e degli oppressi, i militari escono dalle caserme e si impadroniscono del potere.
Ryszard Kapuscinkski, a proposito del colpo di stato nigeriano del 1966, in “Ebano”
Lunedì sera
Delphin non era con noi a cena stasera, e così, unico maschio a tavola, è toccato a me l'onore di iniziare a mangiare per primo. Mentre prendevo il riso m'è arrivato un SMS, ma vista la solennità del momento ho lasciato che il telefono vibrasse nella tasca, e l'ho preso solo a fine cena. Era un messaggio dell'Unità di Crisi della Farnesina, che scriveva di “evitare assolutamente Iavoloha”, ovvero la residenza presidenziale di Ravalomanana, poco fuori Antananarivo. Di per sé non era certo un gran notizia: anche se fossi stato a Tana non mi sarebbe neanche passato per la mente d'andare a fare gite turistiche a Iavoloha di questi tempi. Il fatto che da Roma si siano presi la briga di mandare SMS agli italiani però vuol dire che stava succedendo qualcosa di più grave del solito. Pochi minuti dopo mi è arrivata una telefonata da un numero fisso di Roma, che non conoscevo, e lì per lì sono sobbalzato, temendo che fosse l'Unità di Crisi con notizie peggiori. Invece era semplicemente Davide che mi chiamava dal nostro nuovo ufficio, per dirmi che sul Corriere era uscita la notizia che i militari hanno preso il potere. Mi sono fatto leggere la notizia d'agenzia, e l'ho tradotta al volo a Delphin, che era appena rientrato. Non si sa ancora se si tratta di un colpo di stato “neutralista”, o piuttosto di una presa di potere della fazione pro-Andry. Quest'ultima ipotesi mette qualche pensiero in più, visto che non si sa come reagirebbe in tal caso l'ala legalista dell'esercito, e cosa farà Ravalomanana. Con qualche altra telefonata poi abbiamo saputo che Andry oggi ha dichiarato di aver ricevuto 50 milioni di dollari di finanziamenti internazionali, non si sa bene da chi e perché. È probabile che tale dichiarazione, che lascia intendere uno spostamento degli equilibri internazionali sfavorevole a Ravalomanana, sia stata la mossa determinante per far decidere i militari a muoversi dopo tanto temporeggiare. Andiamo a dormire senza altre notizie.
Martedì sera
Stamattina siamo partiti presto per andare, come programmato già da giorni, a visitare i contadini di Befeta, una comunità rurale a una quarantina di km da Fianarantsoa. Per coprire tale distanza, in macchina, ci vogliono più o meno 5 ore, e di nuovo mi è tornato in mente Kapuscinsky, che scriveva che in Africa le distanze si misurano in ore e giorni, piuttosto che in km.
In effetti più che un viaggio nello spazio andare a Befeta è davvero un viaggio nel tempo, non solo per la durata, ma anche perché ci si allontana progressivamente dall'asfalto, dalla rete elettrica, dal mondo in cui funzionano i cellulari, per raggiungere luoghi di un altro secolo, dove si vive di agricoltura senza trattori né impianti di irrigazione, e ci si sposta a piedi o su carretti trainati da coppie di zebù. Abbiamo passato una giornata intensissima, fra rituali di accoglienza codificati da immutabili tradizioni, un bellissimo pranzo comunitario servito su un pavimento coperto di tzihi intessuti a mano, riunioni, canti scritti per l'occasione (fra cui uno sorprendente dei bambini del villaggio che cantavano strofe sulle loro esperienze di microcredito), e balli e feste.
Non appena siamo rientrati nel mondo in cui funzionano i cellulari, stasera, ho chiamato in Italia per chiedere cosa è successo oggi 400 km più a nord di qui, e capire se nel frattempo era scoppiata una guerra oppure no.
Il potere l'hanno preso i militari pro-TGV, dopo aver accerchiato per qualche ora il palazzo presidenziale, e l'hanno conferito ad Andry subito dopo. Questa era l'ipotesi che fino a ieri ritenevamo la più inquietante, e invece sembra che Ravalomanana, anziché resistere fino alla morte nel suo fortino coi suoi soldati come aveva sempre dichiarato, si sia dimesso, o comunque abbia ceduto il potere ai militari, e che l'ala legalista dell'esercito segua per ora passivamente gli eventi senza battere ciglio. Insomma, il lungo scontro istituzionale sembra concluso, con la vittoria di Andry su tutta la linea.
La prima reazione, specie fra gli italiani, è stata di grande sollievo, se non apertamente di giubilo. Non perché parteggiassimo per un oligarca o per l'altro, ma semplicemente perché s'è scongiurato il peggio, è finito lo scontro, e ci siamo liberati di quel fondo d'incertezza costante degli ultimi giorni.
Per i meccanismi paradossali dei media occidentali, proprio ora escono invece le notizie sui principali giornali italiani e cominciano quindi ad allarmarsi amici e parenti. Ci vuole un po' di impegno per tranquillizzarli tutti.
Mercoledì mattina
Questa mattina, prima di un altro viaggio programmato al parco nazionale di Rano Mafana, sono riuscito ad andare in Internet a leggere un po' di notizie. L'editoriale di Sobika, con un gioco di parole geniale e un umorismo cinico e sconsolato tipicamente malgascio, parla di un paese che vorrebbe essere una Republique ma si conferma ancora una Ruepublique, una strada-pubblica, in cui non c'è mai stato un governo o un presidente che abbiano perso le elezioni, e il potere si è sempre rinnovato con moti di piazza più o meno violenti, e con le conseguenti e determinanti oscillazioni dei militari.
È la nota più amara di tutta questa vicenda, che ha portato ad una nuova ferita armata alle aspirazioni democratiche di questo paese che, malgrado abbia avuto il suo '72, i movimenti studenteschi, la decolonizzazione, una storia politica e una società civile sicuramente più vive e mature di tanti altri contesti africani, continua comunque ad essere una democrazia perennemente adolescente. Delphin, che ha una fiducia pressoché nulla in entrambi gli oligarchi e legge ogni evento con un cinico e quasi divertito distacco, mi sorprende quando mi confessa con amarezza: “come malgascio, avrei preferito che Ravalomanana si fosse fatto ammazzare per difendere il suo ruolo costituzionale come aveva promesso, piuttosto che cedere il potere in quel modo”.
È confortante sapere che gli scontri sono finiti, ma al tempo stesso i malgasci devono fare i conti anche con l'umiliazione di vedere le sorti del loro paese decise, ancora una volta, da un gruppo di generali ammutinati.